Ebbene sì: se in un momento di forte stress decidi di fare la pazzia di lasciare il tuo snervante e pesante lavoro dando d’impulso le dimissioni ma poi te ne penti, non temere, queste potrebbero essere ritenute nulle. O almeno, così è successo nel caso esaminato oggi, nel quale la Corte di Cassazione ha confermato che se date sotto stress le dimissioni potrebbero non valere.
Il lavoratore sotto stress: il caso
Il caso in esame riguarda un geometra, ex dipendente di un Comune, che dà le proprie dimissioni in un momento di forte stress ma poi, ripensandoci, agisce in giudizio per ottenere sia l‘accertamento di inefficacia della revoca delle proprie dimissioni, che la dichiarazione di invalidità o inefficacia delle dimissioni predette. L’uomo propone ricorso in cassazione a seguito del rigetto delle proprie richieste inizialmente da parte del Tribunale di Parma con la sentenza n. 3/2015, e successivamente della Corte d’Appello di Bologna, la quale dichiara che “la decisione di rassegnare le dimissioni va valutata nel contesto lavorativo dell’epoca, fonte di stress e insoddisfazione per l’interessato e tenendo conto delle conseguenti patologie contratte e diagnosticate dai medici curanti nonché dei molteplici tentativi di cambiare l’ambiente lavorativo effettuati invano dal ricorrente. Questo porta ad escludere, secondo criteri di maggiore probabilità logica, che le dimissioni, anche in passato minacciate, possano considerarsi il frutto di un momento di inconsapevolezza dell’agire”.
La decisione della Cassazione
La Corte di Cassazione ricorda che ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere costituente causa di annullamento (come quella vissuta dal ricorrente e che questi vuole farsi riconoscere), non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venir meno la capacità di autodeterminazione del soggetto. Inoltre, nel caso di incapacità dovuta da malattia non si può prescindere da una valutazione delle possibilità di regresso della malattia.
Secondo i giudici è onere della parte che sostiene la validità dell’atto dare prova che esso fu posto in essere, in quel periodo, durante una fase di remissione della patologia. È inoltre necessario accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata volontà di porre fine al rapporto stesso.
Come ricordato dalla Cassazione, nel rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione, al dipendente dimissionario si applica l’istituto della riammissione in servizio, che non dà luogo alla reviviscenza del precedente rapporti di lavoro. I giudici dichiarano che la Corte d’appello, pur riconoscendo la sussistenza di patologie diagnosticate dai medici come originate dallo stress e dall’insoddisfazione nel lavoro, non ha ritenuto tale complessivo quadro clinico rilevante, anche se, secondo la relazione del CTU, il lavoratore in quel momento mostrava un mutevole turbamento psichico.
La Corte decide quindi che la sentenza impugnata deve essere cassata, rinviando la decisine alla Corte d’appello di Bologna, che dovrà attenersi ai principi affermati compreso quello secondo cui ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive.
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