C’è un limite a tutto: è questo in sostanza il messaggio che la Cassazione vuole far passare con la sentenza n.35677/19, con la quale pone dei limiti al diritto di scegliere dove abitare. I giudici hanno stabilito che il coniuge che porti a vivere l’amante nell’appartamento accanto a quello del partner, nello stesso immobile e collegato dalla stessa scala, commette il reato di maltrattamenti perpetrati nei confronti della moglie, anche in caso di separazione.
Il marito inizia una relazione e fa trasferire l’amante nello stesso immobile della moglie
Nel caso in esame l’imputato avrebbe per diversi anni umiliato la moglie, costringendola a vivere nello stesso immobile della sua amante. In aggiunta a ciò l’uomo avrebbe per anni percosso, minacciato e limitato economicamente la moglie. La vita della donna era diventata ormai penosa e dolorosa.
Nel corso del processo il marito si è difeso contestando le accuse della moglie, persona offesa, dichiarando a proprio favore che la relazione extraconiugale era iniziata altrove in un appartamento differente e che lui aveva richiesto la separazione alla moglie, che non gliel’aveva concessa.
Inoltre, l’imputato ha sostenuto che seppur gli appartamenti fossero nello stesso immobile, gli accessi erano differenti e collegati solo da una scala comune.
Maltrattamenti in famiglia anche in caso di atti di disprezzo
Si legge nel testo della decisione della Corte che il reato di maltrattamenti in famiglia è pienamente riconducibile anche a comportamenti e atti di disprezzo e di offesa alla dignità del familiare, che determinino vere e proprie sofferenze morali.
Il fatto che la donna per anni sia stata costretta a sopportare la presenza di una “concubina” nell’immobile dove lei abita, integra perfettamente gli atti appena citati. La Corte d’Appello aveva sottolineato gli atti di offesa alla dignità della persona di disprezzo e le violenze fisiche e minacce abitualmente poste in essere nei confronti della moglie: durante il processo sono infatti venute alla luce anche le continue privazioni economiche che l’uomo aveva ormai da tempo imposto alla donna e persino al figlio. Mentre l’imputato viveva nel lusso insieme all’amante, moglie e figlio si ritrovavano a doversi cibare alla Caritas.
Questi fatti, rilevati dal giudice di secondo grado, sono stati verificati e confermati anche in Cassazione, che li ha posti a fondamento dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato infliggendogli una condanna di due anni e 3 mesi di reclusione.
La separazione non deve fa venir meno il reciproco rispetto
La Corte di Cassazione ha inoltre affermato che la separazione – invocata dall’imputato – legale o di fatto che sia, non fa comunque venir meno i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale, materiale e di collaborazione scaturiti dal matrimonio.
Inoltre – aggiungono gli Ermellini – la separazione non esclude il reato di maltrattamenti quando l’attività persecutoria incide su quei vincoli che pongono la parte offesa in una posizione psicologica subordinata o dipendente.
Per questo motivo l’uomo è stato condannato a 2 anni e 3 mesi di reclusione e al pagamento, oltrechè delle spese processuali, anche di 2mila euro alla cassa delle ammende.
Per una consulenza legale: info@iltuolegale.it – 02 94088188
Non si effettua consulenza legale gratuita.
È assolutamente vietata la riproduzione, anche parziale, del testo presente in questo articolo senza il consenso dell’autore. In caso di citazione è necessario riportare la fonte del materiale citato.