Non è la prima volta che se ne parla ma ciò non toglie che, purtroppo, si tratta di un tema e di un problema ancora estremamente attuale: la discriminazione sul posto di lavoro della donna. Al centro del ciclone c’è la solita domanda “Vuoi avere figli” che, secondo l’attuale cronaca che ha portato l’attenzione cittadina su questo problema, era tra le domande poste in un questionario online per candidarsi a una posizione lavorativa nell’ambito del marketing.
Vuoi avere figli? La domanda illegale
La domanda “Vuoi avere figli?” posta durante un colloquio o in una richiesta per una posizione lavorativa, oltre ad avere tutte le caratteristiche per essere discriminatoria, è anche illegale. Le decisioni che una donna (o un uomo) decide di assumere nella vita privata, infatti, non devono essere le premesse per un’assunzione o uno scarto e soprattutto non devono essere determinanti per la decisione del datore di lavoro che dovrebbe invece valutare esclusivamente le capacità professionali del candidato.
Domanda illegale discriminatoria: lo dice il codice delle pari opportunità
A stabilire il carattere discriminatorio e illecito della domanda “vuoi avere figli?” (naturalmente se posta durante un colloquio di lavoro) è il Decreto legislativo n.198/2006, meglio noto come codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’art. 6 della legge 28 novembre 2005, n.246.
Secondo l‘art. 27 che dispone i Divieti di discriminazione nell’accesso al lavoro (legge 9 dicembre 1977, n. 903, articolo 1, commi 1, 2, 3 e 4; legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, comma 3) “E’ vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale.
2. La discriminazione di cui al comma 1 è vietata anche se attuata:
a) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza;
b) in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso.
Le uniche eccezioni a tale limite sono ammesse soltanto per mansioni di lavoro particolarmente pesanti individuate attraverso la contrattazione collettiva. Non costituisce discriminazione condizionare all’appartenenza ad un determinato sesso l’assunzione in attività della moda, dell’arte e dello spettacolo, quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione.”
Domanda discriminatoria anche se posta agli uomini
La domanda, per altro, rimane discriminatoria anche se posta agli uomini candidati perché, a prescindere dal fatto che la vita privata di ogni lavoratore non dovrebbe comunque interferire con il proprio lavoro né interessare il datore di lavoro, le ricerche hanno dimostrato un differente impatto della risposta a seconda se chi risponde sia uomo o donna.
Secondo quanto dichiarato da Anna Lorenzetti, docente dell’Università di Bergamo che si occupa proprio di discriminazioni di genere sul lavoro, l’impatto è differente a seconda del sesso di chi risponde. Se è un uomo a dire di volere figli tale dichiarazioni porta a pensare che chi ha risposto sia una persona seria, posata e con la testa sulle spalle che probabilmente cercando stabilità affettiva offrirà stabilità lavorativa.
Al contrario invece, se a dichiarare di volere figli è una donna questa viene percepita come una lavoratrice meno affabile che prima o poi verrà meno ai propri impegni a causa della gravidanza e della maternità.
La domanda resta dunque illegale considerando che le decisioni private dei dipendenti non devono essere preconcetti che influenzeranno ingiustamente la scelta dei candidati.
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