Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: oggi approfondiamo il reato di revenge porn previsto dal nostro ordinamento penale.
Il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, una piaga sociale che non conosce limiti geografici e culturali.
La violenza di genere non può essere circoscritta alla sola aggressione fisica contro una donna per mano di un uomo, ma include anche le vessazioni psicologiche, i ricatti economici, le minacce, le violenze sessuali, nonché le persecuzioni, fino a sfociare nella sua manifestazione più estrema nel femminicidio.
Negli ultimi anni ha preso piede purtroppo una particolare condotta criminale, il c.d. revenge porn, che consiste nella diffusione e condivisione pubblica in internet o sui social network di immagini o video intimi senza il consenso delle persone rappresentate, spesso con lo scopo di umiliare per ritorsione o vendetta.
Revenge porn: reato dal 2019
Il reato di revenge porn è stato introdotto in Italia con la legge Codice Rosso (n. 69/2019) in vigore dal 9 agosto 2019, che punisce con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5mila a 15 mila euro, “chiunque invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate”. Si tratta di un fenomeno di violenza a tutti gli effetti, che purtroppo non trova ancora piena repressione in molti Paesi del mondo, ma che ha effetti devastanti sulla vittime, che arrivano a compiere spesso gesti autolesionistici, fino a togliersi la vita.
La maestra d’asilo: prima umiliata dall’ex e poi licenziata
In questi ultimi giorni è balzato alle cronache la vicenda che ha visto coinvolta una maestra di Torino, licenziata per il video hard che l’ex fidanzato ha condiviso in una chat su WhatsApp fra amici, finendo poi nelle mani di una mamma, che ha riconosciuto in quelle immagini la maestra d’asilo del proprio figlio.
La notizia fa presto a diffondersi e raggiunge le altre mamme dei compagni di asilo, fino a raggiungere la dirigente scolastica dell’istituto, la quale, ritenendo le abitudini di vita della donna incompatibili con il suo ruolo educativo, prima la licenzia e poi rende pubblico il motivo del licenziamento, con danno irreversibile alla reputazione e perdita definitiva di qualsiasi possibilità di trovare un nuovo posto di lavoro.
Sulla vicenda c’è un’indagine in corso: la direttrice è finita sotto processo per diffamazione, per aver reso pubbliche le ragioni del licenziamento, mentre l’ex fidanzato, colpevole di aver diffuso il video hard che aveva sul suo telefonino, dovrà scontare un anno di servizi socialmente utili, oltre a pagare un risarcimento.
Il caso Cantone e la colpevolizzazione delle vittime
Questo recente caso non può non richiamare alla memoria la triste vicenda di Tiziana Cantone, la ventinovenne campana che si è tolta la vita nel 2016 sotto il peso della vergogna e dell’umiliazione per la diffusione in rete di un suo video hard.
Nonostante si tratti di due fatti distinti e con diverso epilogo, le due vicende sono molto simili.
In entrambi i casi, infatti le dinamiche di massa generate dalle chat e dai social network trasformano video privati o di natura goliardica in vere e proprie spirali della vergogna fuori controllo; ma non solo, anche nel recente caso torinese è ancora forte il pensiero collettivo e sociale di colpevolizzazione delle vittime o victim blaming, che condanna sempre la donna, rea di “essersela andata a cercare”.
La diffusione di materiali privati senza consenso non costituisce solo un reato, ma soprattutto una violenza, così come la colpevolizzazione di una donna che, come tutti, ha il pieno diritto di vivere la propria intimità liberamente.
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