La Corte costituzionale questa estate si è trovata a spiegare un importante concetto destinato a stravolgere gli assetti economici di alcune famiglie aventi un’impresa: per i giudici il convivente di fatto è da ritenere a tutti gli effetti un familiare, motivo per cui anche il partner che lavora nell’azienda in assenza di matrimonio fa parte dell’impresa di famiglia.
Impresa di famiglia non riconosciuta per la convivente
Il caso esaminato oggi parte dalla richiesta avanzata in prima istanza al Tribunale da una donna avente una relazione sentimentale e di convivenza con un uomo deceduto, la quale aveva citato in giudizio i figli e i coeredi dello stesso chiedendo che venisse riconosciuta l’esistenza dell’impresa famigliare in cui la richiedente aveva lavorato con il compagno, suo convivente di fatto. Nello specifico la donna chiedeva di ottenere la liquidazione della sua quota, che le sarebbe spettata per il periodo in cui aveva lavorato nell’azienda di famiglia in qualità di partecipante all’impresa. Sia in primo grado che, successivamente, in secondo, I giudici respingono la richiesta sostenendo che il convivente di fatto non potesse essere considerato familiare agli occhi della legge, così come previsto dall’art. 230-bis, terzo comma, del Codice civile. La norma, infatti, prevede che “si intende come familiare:
- il coniuge;
- i parenti entro il terzo grado;
- gli affini entro il secondo;
Mentre, per impresa familiare, si intende quella in cui collaborano:
- il coniuge;
- i parenti entro il terzo grado;
- gli affini entro il secondo”.
Apparentemente, dunque, nessuno spazio per le convivenze di fatto, ed è proprio qui che entra in campo la Corte Costituzionale.
Impresa di famiglia anche per le convivenze di fatto
Per la Suprema corte, interpellata dalle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione per fare luce sulla questione, il problema fondamentale sta nel fatto che ancora oggi vi è una “mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza more uxorio, oltre che delle aperture della giurisprudenza sia di legittimità e sia costituzionale”. In sostanza, scrivono I giudici nella sentenza n. 148/2024, la legge ancora una volta non sa stare al passo con I tempi.
La Consulta evidenzia come sia a livello nazionale che europeo negli ultimi decenni la società sia profondamente mutata, motivo per cui è doveroso dare piena dignità anche alle famiglie composte da conviventi di fatto, a cui i diritti fondamentali devono essere necessariamente riconosciuti senza fare distinzione alcuna con le famiglie fondate sul matrimonio.
Per la Corte la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare è da ritenersi irragionevole essendo compito delle istituzioni la tutela del lavoro come strumento di realizzazione della dignità di ciascuno. Per questo motivo, continuano I giudici, è necessario ampliare la tutela dell’art. 230-bis del codice civile anche al convivente di fatto. Spiega la Corte Costituzionale che è da ritenere costituzionalmente illegittimo il 3° comma dell’art. 230-bis, essendo limitante per i conviventi di fatto, non inclusi nella definizione di impresa familiare. Tale limitazione, infatti, comporta il mancato riconoscimento:
– del lavoro nella famiglia;
– del diritto al mantenimento;
– dei diritti partecipativi inerenti alla gestione dell’impresa di famiglia.
Come ricorda la Suprema Corte, la disciplina dell’impresa familiare vuole specificatamente tutelare il lavoro familiare da intendere come “fattispecie intermedia tra il lavoro subordinato vero e proprio e quello gratuito, reso affectionis vel benevolentiae causa. La difficoltà per il prestatore di provare la subordinazione in siffatto contesto finiva prevalentemente per attrarre la prestazione nella fattispecie del lavoro gratuito, privo di effettiva protezione”, si legge nella pronuncia.
Vista la ratio della norma, lo scopo è quello di tutelare chi, in virtù del rapporto familiare con il titolare dell’azienda, lavora per lui avendo meno tutele di un dipendente qualsiasi: per questo motivo, spiegano i giudici, l’elencazione contenuta nel terzo comma dell’art. 230-bis c.c. deve prevedere (oltre ai soggetti legati da unioni civili, aggiunti nel 2016) anche i conviventi di fatto.
Nella sentenza si legge, infatti, che il convivente di fatto si trova nella stessa situazione dei familiari di sangue o acquisiti, per i quali “l’affectio maritalis fa sbiadire l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito”.
La palla passa ora al legislatore, che avrà il compito di adeguare alla Costituzione la normativa, tutelando anche quelle famiglie formate da una convivenza di fatto e non unite in matrimonio, perchè esistono e vanno protette come tutte le altre.
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