Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito che i “corsi di recupero” imposti dal giudice a chi viene condannato per uno dei reati previsti dal “codice rosso” (ossia quelli relativi a casi di violenza di genere) introdotti dal 2019 non sono retroattivi ma alla loro frequenza può essere subordinata la sospensione della pena.
Codice rosso e sospensione della pena
Il caso esaminato oggi viene portato all’attenzione della Cassazione su richiesta del ricorrente, condannato in primo e secondo grado per un reato previsto dal codice rosso. I giudici, pronunciando la condanna, avevano anche disposto la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena subordinata alla partecipazione dell’imputato ad un percorso di recupero presso un’associazione antiviolenza, che sarebbe dovuto iniziare al massimo entro due mesi dalla data di passaggio in giudicato della sentenza d’appello.
Secondo i giudici di merito l’imputato aveva attuato una campagna persecutoria contro l’ex coniuge in seguito alla separazione e all’affidamento della figlia minorenne alla madre. L’uomo aveva molestato, minacciato e diffamato gravemente la donna anche attraverso i social network e le mail.
Impugnando la sentenza il ricorrente denuncia che le disposizioni del giudice aggravino la pena così come prevista dal codice penale. Nello specifico, secondo i legali dell’imputato, il fatto che il beneficio della sospensione condizionale della pena sia subordinato alla partecipazione al corso di recupero è da ritenersi illecito poiché l’art. 165, c.5, c.p. (che nel 2019 ha istituito questi corsi di recupero per gli autori dei reati di cui all’art. 612 bis c.p.), è inapplicabile in via retroattiva a fatti di reato commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore (come quelli del caso di specie). In sostanza la difesa invoca il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole disciplinato dall’art. 25, comma 2, della Costituzione e dall’art. 2 del Codice penale.
Corsi di recupero e codice rosso: cosa prevede la normativa
Come spiegato dalla Cassazione con sentenza n. 178/2024, il citato artircolo 165, 5c., c.p. prevede che “nei casi di condanna per il delitto previsto dall’articolo 575, nella forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612 bis, nonché agli articoli 582 e 583 quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione condizionale della pena è sempre subordinata alla partecipazione, con cadenza almeno bisettimanale, e al superamento con esito favorevole di specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati, accertati e valutati dal giudice, anche in relazione alle circostanze poste a fondamento del giudizio formulato ai sensi dell’articolo 164”.
Tale comma è stato inserito nel codice penale dall’art. 6 della l.69/2019, successivamente modificato dall’art. 15 della l.168/2023.
Codice rosso e sospensione della pena: cosa dice la Cassazione
I giudici di legittimità respingono il ricorso non ritenendo illegale la scelta della sospensione della pena disposta dal giudice. Nello specifico, per la Cassazione (che riprende la recente pronuncia selle Sezioni Unite n.5352/2023) la pena illegale “è quella che si colloca al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale, perché diversa per genere, per specie o per quantità da quella positivamente prevista”. Relativamente alla sospensione della pena, invece, la Corte specifica che tale istituto conserva ancora la funzione di “misura in senso lato, alternativa alla detenzione, rispondente alla ratio di sottrarre alla privazione della libertà e alla restrizione in carcere chi non avesse ancora conosciuto l’esperienza detentiva, orientata a ridurre il fenomeno della detenzione breve”.
Nella sentenza la Cassazione specifica quindi che “le Sezioni unite, con sent. n.5352/2024, escludono che la sospensione condizionale della pena possa essere ricondotta alla nozione di “pena” rilevante ai fini della verifica della sua “legalità”, in quanto essa implica la già avvenuta determinazione della sanzione mediante una sentenza di condanna e cioè la traduzione della pretesa punitiva, della punibilità astratta, in concreta; essa si configura come un’astensione a tempo dall’esecuzione della pena, che non implica alcuna limitazione della libertà personale del condannato”. Cosa significa questo in parole povere? I giudici intendono dire che la sospensione della pena non condiziona in alcun modo la determinazione della pena stessa, che viene semplicemente sospesa su scelta discrezionale del giudice qualora l’imputato rispetti specifiche disposizioni (in questo caso, ad esempio, la sospensione è subordinata alla frequentazione di corsi specifici antiviolenza).
Per la Corte i motivi di sospensione della pena sono così tanti che non è possibile riportarli tutti nel codice civile ma per tali si intendono “comportamenti imposti al condannato in funzione special-preventiva, strumentali al conseguimento dell’effetto” che si intende non venga ripetuto (es. ti sospendo la pena a patto che tu frequenti un corso contro la violenza sulle donne in modo che tu non ripeta i tuoi comportamenti violenti).
Quindi, non rientrando la sospensione condizionale nella nozione di pena, la lamentata illegalità della pena formulata dal ricorrente viene ritenuta infondata e il ricorso respinto. L’obbligo di frequentare i corsi di recupero per evitare l’applicazione della pena è legittimo, anche se i fatti per i quali il ricorrente è stato condannato sono avvenuti prima dell’entrata in vigore della normativa che disciplina il codice rosso.
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