SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione innanzi al tribunale di Roma del 15 aprile 1991 D.L. conveniva in giudizio G.R. e la Casa di cura Villa Salaria srl per ottenerne la condanna solidale al risarcimento dei danni che assumeva esserle derivati dall’intervento di chirurgia estetica di liposuzione agli arti inferiori eseguito dal convenuto nella predetta casa di cura.
I convenuti si costituivano e la Casa di cura Villa Salaria srl spiegava domanda riconvenzionale, diretta a conseguire il pagamento delle spese delle degenza protrattasi per circa due mesi dopo l’intervento in conseguenza delle complicazioni post-operatorie di D.L., ed otteneva di chiamare in causa la società Assicurazioni Generali spa per essere garantita.
Nel giudizio interveniva anche la società Assitalia spa Compagnia di assicurazione della responsabilità civile di G.R.
Il tribunale adito condannava la casa di cura Villa Salaria srl, G.R. e le due società di assicurazione a pagare a D.L. la somma di L. 653.139.000 e quella di L. 50.171.153, con gli interessi di legge; rigettava la domanda riconvenzionale della casa di cura Villa Salaria srl; condannava i soccombenti alle spese processuali.
Sul gravame principale della società Assicurazioni Generali spa e sulle impugnazioni incidentali di tutte le altre parti appellate nonchè dell’appellante principale provvedeva la Corte d’appello di Roma con la sentenza pubblicata il 23 luglio 2002, che, in parziale riforma della sentenza del tribunale, condannava la Casa di cura Villa Salaria srl e G.R., in solido, a pagare a D.L. la somma di L. 108.639.000 a titolo di risarcimento dei danni e la metà delle spese processuali del doppio grado, dichiarava le società Assicurazioni Generali spa ed Assitalia spa tenute a garantire i rispettivi assicurati Casa di cura Villa Salaria srl e G.R..
Ai fini che ancora interessano i giudici d’appello consideravano che:
a) l’infezione post-operatoria era da attribuire all’uso della sonda suttrice non adeguatamente sterilizzata, secondo quel che doveva ricavarsi dalla prova indiziaria, rispetto alla quale non erano condivisibili le ipotesi alternative avanzate dai consulenti di parte convenuta;
b) avendo l’attrice concluso due distinti rapporti negoziali (con il chirurgo operatore e con la Casa di cura), andava affermata la responsabilità contrattuale solidale in eguale misura di entrambi i convenuti a norma dell’art. 1218 c.c. in relazione alla dedotta obbligazione di mezzi e non di risultato, del cui inadempimento rispondevano la Casa di cura, per avere messo a disposizione le attrezzature ed il personale utilizzato per l’intervento, ed il chirurgo, per avere omesso il doveroso controllo degli strumenti usati;
c) con la responsabilità contrattuale concorreva quella extracontrattuale di entrambi i convenuti in relazione all’ipotizzabile delitto di lesioni colpose;
d) le censure della danneggiata circa la pretesa esiguità del danno biologico erano generiche ed avevano trascurato di considerare che la liquidazione era stata effettuata sulla base di tabelle adottate dal tribunale;
e) il danno morale, che era stato determinato con il criterio equitativo, era conseguente alla configurabilità del reato di cui all’art. 590 c.p., ancorchè per esso non ai fosse proceduto nella sede penale per difetto di querela;
f) la misura del danno da lucro cessante, riconosciuta dal tribunale, non era stata oggetto di specifici motivi di gravame;
g) in base alle conformi conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio (che ingiustificatamente erano state disattese dal giudice di primo grado) e a modifica della statuizione del tribunale sul punto, nessuna incidenza aveva avuto l’evento dannoso sulla specifica capacità lavorativa di D.L., cui andava, perciò, negato il riconoscimento del danno emergente;
h) le spese sostenute da D.L. per l’intervento di liposuzione non erano liquidate poiché l’attrice non le aveva documentate;
i) la questione relativa alle spese di pagamento della degenza postoperatoria in ragione di L. 58.575.537 (reclamate dalla Villa Salaria nei confronti di D.L. e di cui costei anche aveva chiesto la liquidazione a suo favore) era attinente al rapporto ed agli accordi sottostanti fra G.M. e la Clinica.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso principale D.L., che ha affidato l’impugnazione a tre motivi.
Hanno resistito con controricorso G.M., la Casa di cura Villa Salaria srl, la società Assicurazioni Generali spa e la società Assitalia spa e tutti hanno proposto ricorso incidentale, basato, rispettivamente, su tre, due, uno e quattro motivi.
G.M. ha resistito all’impugnazione incidentale proposta dalla Casa di cura Villa Salaria srl.
D.L., G.M. e la società Assicurazioni Generali spa hanno presentato memoria.
Il difensore di G.M. ha presentato osservazioni scritte sulle conclusioni d’udienza del P.M. (art. 379 c.p.c., comma 4).
MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi, impugnazioni distinte della medesima sentenza, sono riuniti (art. 335 cod. proc. civ.).
Poichè, come è stato rilevato già dal giudice di secondo grado, la questione che prima delle i altre deve essere risolta è quella relativa alla responsabilità per danni dei convenuti G. R. e Casa di cura Villa Salaria srl, rileva questa Corte che vanno esaminate per prime le censure sul punto prospettate dai ricorrenti incidentali G.M., Casa di cura Villa Salaria srl, società Assicurazioni Generali spa e società Assitalia spa.
Con il primo motivo dell’impugnazione – deducendo la violazione e la falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 62, 112, 115, 116, 132, 191, 194, 244 e 246 c.p.c., artt. 1176, 1218, 1223, 1228, 2043, 2236, 2697 e 2729 c.c. nonchè l’omessa o quantomeno insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – il ricorrente incidentale G.R. critica la impugnata sentenza nella parte in cui il giudice di merito ha fatto derivare l’infezione riportata da D.L. dalla presenza di un microbatterio "veicolato dalla sonda settrice utilizzata nell’intervento chirurgico e non adeguatamente sterilizzata".
Sostiene che a detta conclusione il giudice di merito sarebbe pervenuto utilizzando in modo volutamente parziale e frammentario le risultanze istruttorie e cadendo in contraddizione insanabile; che i consulenti tecnici d’ufficio non avevano affermato che la patologia era stata cagionata dall’insufficiente disinfezione della sonda, ma detta circostanza avevano solo prospettato come causa possibile dell’infezione; che la Corte territoriale avrebbe totalmente ignorato le risultanze dell’istruttoria testimoniale; che esso istante aveva posto in risalto una serie di elementi suscettibili di smentire la tesi accolta della insufficiente sterilizzazione della sonda ed idonei a fare attribuire la patologia insorta nella D. ad una probabile genesi disreattiva"; che la detta diversa causa della infezione era anche quella indicata da altro immunologo con parere pro veritate prodotto in primo grado.
Con il secondo motivo dell’impugnazione – deducendo la violazione e la falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 62, 112, 115, 116, 132, 191, 194, 244 e 246 c.p.c., artt. 1176, 1218, 1223, 1228, 2043, 2049, 2055, 2059, 2236, 2697 e 2729 c.c., artt. 40, 41, 185, 590 c.p. nonchè l’omessa o quantomeno insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia – il ricorrente incidentale G.R. critica l’impugnata sentenza nella parte in cui il giudice del merito ha ritenuto che la sua responsabilità derivava dall’omesso controllo degli strumenti chirurgici utilizzati e risultati infetti.
Assume che la suddetta conclusione sarebbe destituita di fondamento de iure e de facto, sia perchè la prova orale e le altre risultanze istruttorie avrebbero dimostrato che le attrezzature chirurgiche erano state controllate ed adeguatamente sterilizzate; sia perchè l’eventuale difetto di sterilizzazione costituiva, in ogni caso, circostanza che ad esso ricorrente non poteva essere addebitata, essendo il chirurgo operatore estraneo all’attività disimpegnata dal personale della clinica e, come tale, impossibilitato, giuridicamente e concretamente, ad esercitare qualsivoglia potere di direzione, vigilanza e controllo sul personale stesso e sulle operazioni da esso eseguite con l’uso delle apposite apparecchiature, di cui potevano disporre solo i dipendenti della clinica.
Con l’unico motivo dell’impugnazione incidentale – deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui all’art. 2729 c.c. nonchè l’omesso esame delle prove ed il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia – la società Assicurazioni Generali spa critica anch’essa la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice del merito ha ravvisato nell’inidonea sterilizzazione della sonda settrice la causa della patologia della D., sostenendo che quella prospettata dai consulenti tecnici d’ufficio restava solo una tesi probabile, che il giudice del merito non avrebbe potuto valorizzare sotto la specie della prova presuntiva.
Con il primo motivo dell’impugnazione incidentale – deducendo la violazione e la falsa applicazione dei principi in tema di accertamento ed attribuzione della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale della casa di cura e delle norme di cui agli artt. 1176, 1218, 2043 e 2055 c.c. nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – la società Casa di cura Villa Salaria srl denuncia che:
essa ricorrente non poteva essere ritenuta responsabile dell’eventuale colpa professionale del chirurgo operatore, sia perchè costui non svolgeva l’attività professionale alle sue dipendenze, sia perchè la clinica aveva fornito soltanto le attrezzature ed servizi occorrenti per l’operazione;
anche in ipotesi di deficienti assistenza e cure post-operatoria da parte del personale della clinica, la clinica di ciò non poteva rispondere, perchè si sarebbe trattato di comportamenti attuati per disposizione e sotto la sorveglianza del medico esterno;
la sonda utilizzata per l’intervento operatoria non era tra gli strumenti forniti dalla clinica ed apparteneva alla esclusiva disponibilità del chirurgo;
in ogni caso, le risultanze probatorie e le conclusioni dei consulenti tecnici d’ufficio erano nel senso che l’infezione era stata la conseguenza della predisposizione della D. a sviluppare malattie autoimmuni.
Con il primo motivo della sua impugnazione incidentale – deducendo la violazione delle norme di cui agli artt. 115 e 132 c.p.c. e artt. 1176, 1228, 2236 e 2043 c.c. nonchè l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia – la società Assitalia spa assume che l’affermazione della sua responsabilità in solido con quella di G.R. sia a titolo contrattuale che extracontrattuale, sarebbe fondata sulla erronea applicazione delle indicate norme codicistiche e su presupposti contraddittori sotto il seguente duplice profilo:
1. per la sussistenza della responsabilità contrattuale del chirurgo in relazione alla assunta obbligazione (di mezzi e non di risultato), il giudice del merito non aveva individuato a carico dello stesso alcuna condotta improntata a negligenza, imprudenza o imperizia;
2. allo stesso modo, quanto all’affermata responsabilità extracontrattuale del medico operatore, non era stata data la dimostrazione del nesso di causalità tra il suo fatto doloso o colposo e l’evento di danno.
2. Con il secondo motivo – deducendo la violazione delle norme di cui agli artt. 115 e 132 c.p.c. nonchè l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia – la ricorrente incidentale società Assitalia spa, assumendo che l’affermazione di responsabilità a suo carico sarebbe stata basata sulla norma di cui all’art. 2049 c.c. per fatto di G.R., sostiene che non sarebbe stata la prova rigorosa del fatto doloso o colposo del chirurgo, presupposto indispensabile per ritenere la responsabilità per fatto dell’ausiliario, e che, comunque, la suddetta responsabilità ex art. 2049 c.c. doveva essere esclusa perchè l’allestimento di tutta l’attività preparatoria dell’intervento era stata predisposta sotto l’esclusiva direzione e sorveglianza del chirurgo.
3. Con il terzo motivo – deducendo la violazione delle norme di cui agli artt. 115 e 132 c.p.c. nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto deciso della controversia – la ricorrente incidentale società Assitalia spa sostiene che il giudice di secondo grado avrebbe omesso di considerare che non era stata fornita la prova del nesso causale tra l’evento di danno della D. e la condotta del chirurgo operatore e che, comunque, detto rapporto causale sarebbe venuto meno in virtù di un accadimento imprevedibile ed inevitabile ovvero di una preesistente particolare condizione fisica della D., da sola sufficiente a cagionare l’evento.
I motivi innanzi elencati – che vengono esaminati congiuntamente, costituendo essi i distinti (e talora contrapposti) profili dell’unica censura relativa alla sussistenza della responsabilità del medico ed al rapporto di essa con quella della struttura sanitaria della clinica, nella quale l’intervento chirurgico è stato praticato – non possono essere accolti.
Costituisce pacifico principio di diritto nella giurisprudenza di questo giudice di legittimità (Cass., sez. un., n. 9556/2002; Cass. n. 13066/2004) che il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura privata (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale, e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonchè, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ. ovvero all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto.
Del suddetto principio la Corte territoriale ha fatto esatta applicazione nell’ipotesi in esame, affermando la responsabilità solidale con il chirurgo della la società Casa di Cura Villa Salaria srl, nella cui struttura era stato praticato l’intervento operatorio.
Di conseguenza, il motivo dell’impugnazione incidentale della Casa di Cura Villa Salaria srl (nella parte in cui esso prospetta che il chirurgo non svolgeva attività professionale alle sue dipendenze; che la clinica aveva fornito soltanto le attrezzature ed i servizi occorrenti per l’operazione, ma non la sonda utilizzata per la liposuzione; che i suoi dipendenti avevano agito sotto l’esclusiva sorveglianza del medico operatore, attuandone le disposizioni loro impartite) espone circostanze irrilevanti in diritto al fine di escluderne l’affermata responsabilità contrattuale, la cui sussistenza toglie anche valenza alla censura della sua compagnia assicuratrice Assitalia spa, non trovando applicazione la norma dell’art. 2049 c.c. peraltro erroneamente indicata come quella assunta dal giudice del merito a fondamento della responsabilità della casa di cura.
In ordine all’affermata responsabilità del chirurgo operatore – questione prospettata, sotto vari aspetti, dai primi due motivi dell’impugnazione di G.R., dall’unico motivo dell’impugnazione della società Assicurazioni Generali spa, dalla società Assitalia spa con la restante parte del
primo e con il secondo ed il terzo motivo del suo ricorso incidentale nonchè dalla società Casa di cura Villa Salaria Sri con la restante parte del primo motivo – osserva questo giudice di legittimità che la censura non può essere accolta, sia per quel che riguarda l’accertamento della causa della patologia insorta nella D. siccome derivante dall’eseguito intervento chirurgico, sia per quel che concerne la specifica responsabilità dell’operatore.
Le ragioni esposte a fondamento dei motivi d’impugnazione sul punto, infatti, tutte sostanzialmente dirette a sindacare la statuizione del giudice del merito per preteso vizio di motivazione, in realtà concretano una mera guaestio facti, giacchè in questa sede sollecitano la rivisitazione delle risultanze probatorie acquisite per ottenerne un apprezzamento diverso e difforme da quello cui è pervenuto il giudice del merito con argomentato iter motivazionale immune da illogicità ed incongruenza.
La richiesta proveniente dai ricorrenti incidentali è, però, del tutto inammissibile, giacchè la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).
Invero, la Corte territoriale, identificando la causa dell’infezione della D. in un microbatterio (cd. mycrobacterium chelonae) veicolato dalla sonda suttrice utilizzata nell’intervento e non adeguatamente sterilizzata, ha spiegato anche, anzitutto, perchè detta circostanza, indicata dai consulenti tecnici d’ufficio come "ipotesi altamente probabile" fosse, invece, l’unica realmente possibile.
In proposito, il giudice del merito ha considerato che il giudizio dei consulenti tecnici d’ufficio è stato formulato in termini non di assoluta certezza solo in considerazione del lungo tempo trascorso dal giorno dell’intervento a quello (di circa tre anni dopo) dell’indagine peritale ed ha ritenuto che la sicura conferma della suddetta causa dell’insorta malattia era nel fatto che l’infezione non aveva riguardato i tessuti non attinti dalla sonda e pure sottoposti ad incisione da altri strumenti nel corso del medesimo intervento.
La Corte territoriale, nel compiuto esame dei rilievi di cui al gravame d’appello, ha escluso la diversa causa della "patologia disreattiva", già negate dal giudice di primo grado, in ciò recependo le "approfondite e persuasive argomentazioni dei consulenti tecnici d’ufficio", e, considerando che i primi sintomi della patologia si erano manifestati solo pochi giorni dopo l’operazione, ha giudicato non condivisibile l’ipotesi alternativa avanzata dalla difesa di G.R. circa "un processo disreattivo autoimmune insorto nella paziente sul quale, solo successivamente, si sarebbe impiantato il microbatterio".
Il giudice d’appello ha, inoltre, posto in rilievo che i numerosi esami di laboratorio – disposti per l’accertamento di eventuali alterazioni immulogiche ed eseguiti "prima, durante e dopo l’intervento" – non avevano mai evidenziato che la paziente fosse una immunodepressa o che soffrisse di alcun tipo di patologia disreattiva ed ha attribuito ad una valutazione "interessata" di parte la indicazione in cartella della "probabile genesi disreattiva", secondo diagnosi redatta a distanza di oltre un mese dall’intervento.
L’impugnata sentenza, infine, ha negato validità all’argomento della predisposizione della paziente a sviluppare malattie autoimmuni, che la difesa di G.R. aveva inteso trarre dai dedotti effetti positivi della terapia cortisonica; ha ritenuto mera congettura la tesi di una possibile incidenza di una precedente infezione di natura tubercolare sulla microbatteriosi insorta nella paziente stessa; ha ricordato che la paziente alcuni mesi prima era stata sottoposta ad altro intervento di cd. "lifting facciale" ad opera del medesimo chirurgo senza complicazioni immunodepressive o disreattive.
Rispetto al suddetto contesto argomentativo – nel quale il giudice del merito, a fronte del giudizio "altamente probabile" dei periti d’ufficio, ha adeguatamente motivato, siccome gli consente la risalente giurisprudenza di legittimità (ex plurimis: Cass., n. 5665/88; Cass., n. 5485/93; Cass., n. 13863/99; Cass., n. 14849/2004), il suo diverso giudizio di certezza sulla causa dell’infezione – le censure dei ricorrenti, peraltro neppure specifiche su taluni degli argomenti indiziari svolti in sentenza, hanno sostanzialmente riproposto le tesi dell’appello, che la Corte territoriale aveva puntualmente respinto in base all’esame ealla valutazione complessiva di tutti gli elementi di fatto (indicati dagli stessi consulenti ed emersi dall’istruttoria), che sono stati giudicati concordanti ed idonei, nella loro combinazione, a fornire una valida prova presuntiva.
Quanto alla responsabilità del chirurgo, affermata sulla scorta dell’omesso suo controllo sulla perfetta sterilizzazione dello strumento da usare, non può essere condiviso l’argomento svolto da G.R. nel secondo motivo d’impugnazione, secondo cui ad esso ricorrente non potrebbe essere addebitata alcuna responsabilità in relazione all’attività disimpegnata dal personale della clinica per il fatto che in ordine alla suddetta attività egli non avrebbe avuto la possibilità, giuridica e di fatto, di esercitare qualsivoglia potere di direzione, vigilanza e controllo.
Invero, un siffatto potere di controllo è stato esattamente riconosciuto dal giudice del merito sul rilievo di carattere generale che, in tema di responsabilità contrattuale, si rende applicabile la norma di cui all’art. 1228 c.c., che, nell’adempimento dell’obbligazione, rende responsabile il debitore anche dell’opera dei terzi, di cui egli si avvale, disciplina questa riferibile anche al rapporto tra medico operatore e personale di supporto messogli a disposizione da una struttura sanitaria dalla quale il medico non dipende, siccome pure è dato specularmene argomentare dal principio prima richiamato (Cass., sez. un., n. 9556/2002; Cass., n. 13066/2004) circa il rapporto tra casa di cura e personale medico pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato.
In particolare, poi, occorre considerare che dal chirurgo operatore è certamente esigibile un dovere di controllo specifico sull’attività e sulle iniziative espletate dal personale sanitario con riguardo a possibili e non del tutto imprevedibili, eventi, che possono intervenire non solo durante, ma anche prima dell’intervento e in preparazione di esso.
Infine è da aggiungere – per quel che concerne il caso in esame, nel quale non risulta contestata dalle parti la definizione del giudice di merito circa la natura cd. routinaria dell’operazione, cui la paziente si era sottoposta – che la giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 5005/96; Cass., n. 1127/98; Cass., n. 7997/2005) è del tutto conforme nel ritenere che nel giudizio avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità del medico chirurgo per l’infelice esito di un intervento chirurgico, l’onere della prova deve ripartirsi tra attore e convenuto a seconda della natura dell’intervento effettuato, nel senso che, mentre nel caso di intervento di difficile esecuzione il medico ha l’onere di provare soltanto la natura complessa dell’operazione ed al paziente spetta dare la dimostrazione dell’inidoneità delle modalità impiegate, nel caso di intervento di facile o routinaria esecuzione, invece, il paziente deve soltanto dimostrare la natura routinaria dell’intervento, sicchè dovrà essere il medico, se vuole andare esente da responsabilità, a fornire la prova che l’esito negativo non è ascrivibile alla propria negligenza od imperizia.
Orbene, nel caso di specie, al fine di escludere la responsabilità del chirurgo non mette conto assumere soltanto (siccome sostiene la censura svolta dalla società Assitalia spa) che l’operazione è stata eseguita secondo le regole proprie del catalogo specifico, dato che era il medico a dovere dimostrare anche che la causa della infezione era da ravvisare in un fatto diverso dall’inidonea sterilizzazione della sonda.
Infondato è anche il terzo motivo del ricorso incidentale di G.R., il quale – deducendo la violazione e la falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 1218, 1223, 1226, 1228, 2055 e 2059 c.c., artt. 40, 41, 185 e 590 c.p. nonchè l’omessa o quantomeno insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia – denuncia che il giudice del merito, senza avere accertato se la sua condotta fosse da ricondurre anche ad ipotesi di reato (nella fattispecie del delitto di lesioni colpose), aveva, tuttavia, riconosciuto alla D. il risarcimento del danno morale.
Il più recente indirizzo interpretativo, espresso da questa Corte a far tempo dalle sentenze n. 8827 e 8828 del 2003 (del quale anche la Corte costituzionale, con la sentenza n. 233 del 2003, ha segnalato l’indubbio pregio), è nel senso, ormai, che il danno non patrimoniale, conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p. e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacchè il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.
Non può essere accolto neppure il quarto motivo del ricorso incidentale, con cui – deducendo la violazione e la falsa applicazione della norma di cui all’art. 1910 c.c. nonchè l’omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia – la società Assitalia spa lamenta che il giudice di merito avrebbe dovuto considerare che, poiché l’obbligazione risarcitoria per la responsabilità di G.R. era garantita anche stipulazione si altra polizza con la società Assicurazioni Generali spa, la condanna di essa ricorrente doveva essere mantenuta nella percentuale del 50% del danno da risarcire a D.L., poiché la garanzia del pagamento dell’altra metà sarebbe dovuta gravare sull’altro assicuratore società Assicurazioni Generali spa.
Osserva, anzitutto questa Corte che certamente la disciplina di cui all’art. 1910 c.c. non si applica al caso di specie.
La norma, infatti, regola la diversa ipotesi in cui per il medesimo rischio siano contratte separatamente (anche da soggetti diversi) più assicurazioni presso diversi assicuratori a favore dello stesso assicurato ed è evidente che, nel caso in esame, non si tratta di assicurazione del medesimo rischio presso diversi assicuratori a favore dello stesso assicurato, ma di rischi distinti di due soggetti diversi, poiché la società Assitalia spa garantisce dal rischio della responsabilità civile il chirurgo G.R., mentre la società Assicurazioni Generali spa copre il rischio analogo della Casa di cura Villa Salaria srl.
Se poi la censura fosse da intendere nel senso che, sussistendo la responsabilità solidale del chirurgo e della casa di cura, l’obbligazione risarcitoria, nel rapporto tra i due debitori, debba ripartirsi in eguale percentuale con l’effetto di limitare a detta percentuale anche l’obbligazione indennitaria di ciascun assicuratore, devesi considerare che sotto tale profilo difetta l’interesse attuale all’impugnazione dell’assicuratore nella presente controversia, nella quale non si verte né in tema di regresso tra condebitori solidali, né in tema di azione di surroga dell’assicuratore al proprio assicurato.
Con il secondo motivo dell’impugnazione incidentale – deducendo la violazione e la falsa applicazione dei principi vigenti in tema di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ai sensi dell’art. 112 c.p.c., la nullità della sentenza e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – la società Casa di cura Villa Salaria srl, premesso che con l’appello aveva lamentato il rigetto da parte del giudice di primo grado in della sua domanda riconvenzionale (diretta ad ottenere la condanna di D.L. a pagare la somma di L. 55.575.537, oltre interessi e rivalutazione, a titolo di corrispettivo per tutte le prestazioni erogatele in occasione della degenza dopo l’intervento di liposuzione), denuncia che il giudice di secondo grado avrebbe omesso di pronunciare in ordine al suddetto mezzo d’appello e che il rigetto della domanda in primo grado sarebbe stato fondato su una circostanza inesistente e mai provata.
Il motivo non può essere accolto.
Il giudice di secondo grado ha espressamente pronunciato in proposito, considerando che la questione del pagamento delle prestazioni erogate era attinente ai rapporti ed agli accordi sottostanti tra G.R. e la Casa di cura Villa Salaria srl, secondo quel che era emerso dalla valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal tribunale, e che il gravame circa la suddetta motivazione non era specifico.
Anche in questa sede la società ricorrente non ha indicato perchè le ragioni addotte con l’appello circa il vizio di motivazione non erano da ritenere generiche.
La infondatezza di tutti i motivi dei ricorsi incidentali comporta, pertanto, che essi debbono essere rigettati.
Con il primo motivo d’impugnazione – deducendo la violazione e la falsa applicazione delle norme di cui all’art. 115 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4 – la ricorrente principale D.L. denuncia l’omesso esame di prove decisive e la contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, perchè il giudice del merito – sulla scorta delle conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio e senza adeguata motivazione circa l’irrilevanza delle prove successivamente acquisite, che dal giudice di primo grado erano state, invece, valorizzato al fine di modificare le conclusioni dei periti d’ufficio – aveva escluso l’incidenza della riconosciuta invalidità permanente sulla sua capacità lavorativa specifica e negato la sussistenza del danno emergente.
In particolare denuncia che lo stato cronico della malattia infettiva perdurante, che la costringeva a frequenti medicazioni e cicli di terapia antibiotica, avrebbero dovuto fare confermare la menomazione della sua capacità lavorativa specifica.
Aggiunge che, anche a concedere che non fosse stata data la prova della persistenza dello stato infettivo, ciò avrebbe dovuto indurre il giudice d’appello a disporre il richiesto supplemento dell’indagine di consulenza.
Il motivo non può essere accolto.
Costituisce principio del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: Cass., n. 12293/2004; Cass., n. 14678/2003; Cass., n. 12022/2000) che il grado di invalidità di una persona, determinato dai postumi permanenti di una lesione alla sua integrità psico-fisica, non si riflette automaticamente nella stessa misura sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica e, quindi, di guadagno, spettando al giudice del merito valutarne in concreto l’incidenza, la quale e stata, perciò, esclusa quando non risulti che la persona danneggiata, a causa delle infermità riscontratele, sia stata adibita a mansioni inferiori alle precedenti ovvero, nello svolgimento delle mansioni pregresse, abbia subito contrazioni del suo reddito.
Altrettanto scontata è la regola di diritto a mente della quale le consulenze e la documentazione di parte costituiscono semplici allegazioni difensive, onde il giudice di merito non è tenuto a motivare il proprio dissenso in ordine alle osservazioni in esse contenute, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni incompatibili con le stesse e conformi al parere del proprio consulente, né è tenuto, anche a fronte di esplicita richiesta di parte, a disporre nuova consulenza d’ufficio, atteso che il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i poteri del giudice di merito, sicchè non è neppure necessaria espressa pronunzia sul punto, quando risulti, dal complesso della motivazione, che lo stesso giudice ha ritenuto esaurienti i risultati conseguiti con gli accertamenti svolti.
Orbene, il giudice di secondo grado non solo ha esattamente applicato i suddetti principi di diritto, ma ha fatto anche buon governo della logica nella motivazione esposta a sostegno delle conclusione (difforme da quella cui era pervenuto il giudice di primo grado) secondo cui D.L., continuando a svolgere dopo l’intervento chirurgico la sua attività di capo-area alle dipendenze del suo datore di lavoro, non aveva riportato diminuzione della sua capacità lavorativa.
Al riguardo, infatti, la Corte territoriale ha spiegato le ragioni per le quali recepiva le argomentazioni dei due consulenti tecnici d’ufficio (definite convincenti e persuasive e giudicate ingiustificatamente contraddette dal giudice di primo grado), aggiungendo che, rispetto alle contrarie sue deduzioni sul punto, D.L. non aveva offerto elementi idonei di conferma, essendo all’uopo insufficiente la documentazione sanitaria di parte.
Nell’escludere il nesso di causalità tra l’evento di danno subito e la dedotta incapacità lavorativa, il giudice di secondo grado ha anche precisato che ciò rendeva superflua ogni altra indagine patrimoniale sull’eventuale variazione del reddito della ricorrente negli anni successivi all’intervento chirurgico.
Le deduzioni svolte in questa sede dalla ricorrente principale, pertanto, si risolvono sostanzialmente anch’esse nella inammissibile richiesta di una diversa valutazione del materiale probatorio.
Neppure sussiste il vizio di motivazione dedotto con il secondo motivo d’impugnazione, con il quale la ricorrente principale, lamentando l’inadeguata liquidazione del danno biologico e del danno morale, critica la sentenza di secondo grado, assumendo, in particolare, che:
a) il criterio della liquidazione del danno biologico con il ricorso a tabelle precostituite di valori, in uso presso il singolo tribunale, sarebbe inidoneo in quanto suscettibile di creare sperequazioni;
b) vi sarebbe stata, comunque, l’applicazione acritica delle tabelle in uso presso il tribunale di Roma, richiamate in relazione soltanto alla sua età ed alla percentuale del 18% di invalidità permanente, senza, tuttavia, la valutazione degli altri elementi concreti della gravità dei postumi e della cronicità della malattia;
c) anche per il danno morale sarebbe insufficiente il solo rilievo che esso era stato liquidato equitativamente secondo il criterio della congruità e della correttezza.
Al riguardo, in ordine alle censure di cui innanzi sub a) e b), questo giudice di legittimità deve, anzitutto, riaffermare la regola (ex plurimis: Cass., n. 11039/2006; Cass., n. 14645/2003; Cass., n. 484/2003) secondo cui la liquidazione equitativa del danno biologico può essere legittimamente effettuata dal giudice sulla base di criteri standardizzati e predeterminati, assumendo come parametro il valore medio per punto calcolato sulla media dei precedenti in virtù delle cd. "tabelle" in uso presso l’ufficio giudiziario, purchè il risultato, in tal modo raggiunto, venga poi "personalizzato", tenendo conto della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, ciò ad evitare che possa giungersi a liquidazioni puramente simboliche o irrisorie.
Deve, inoltre, osservare che nella specie il riferimento ai parametri tabellari è stato opportunamente contemperato con la valutazione, in concreto, di tutti gli altri dati personali del caso concreto, siccome a dato ricavare dalla valutazione complessiva dell’intero quadro di riferimento dello stato della persona danneggiata, quale descritto nelle conclusioni dei periti d’ufficio, che il giudice del merito ha in toto recepito, sicchè anche le censure di cui ai suddetti profili sono inammissibili, in quanto esse sostanzialmente sono diretti ad ottenere in questa sede il riesame del materiale probatorio.
Allo stesso modo, tenuto conto del fatto che la liquidazione del danno morale non può che discendere da una valutazione espressa secondo il criterio della valutazione equitativa (la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura stessa di tale danno e nella funzione del relativo risarcimento, compensativa di un pregiudizio non economico), deve ritenersi, anche per esso, che, nella specie, la liquidazione equitativa è stata adeguatamente giustificata, perchè in proposito sono state ancora prese in esame le tabelle in uso presso il tribunale di Roma per la liquidazione del danno biologico e queste sono state opportunamente personalizzate, tenendo conto della particolarità del caso concreto e della reale entità del pregiudizio patito, calcolato in una somma che il giudice del merito ha ritenuto di ridurre in modo proporzionato rispetto a quella, ritenuta eccessiva, riconosciuta dal giudice di primo grado, Con il terzo motivo dell’impugnazione – deducendo l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – la ricorrente principale lamenta che il giudice del merito le aveva negato la restituzione della somma di L. 5.000.000, corrisposta quale onorario al chirurgo per l’operazione di liposuzione e la somma di L. 2.293.000, pagata alla Gasa di cura Villa Salaria srl.
Sostiene che la relativa domanda aveva costituito l’oggetto, in primo grado, di specifica istanza istruttoria, di cui ai capi n. 18 e 20 del formale interrogatorio e di richiesta formulata con la comparsa conclusionale di primo grado.
Aggiunge che, poiché il pagamento della suddetta somma non aveva riguardato una spesa successiva all’intervento di liposuzione, di essa la consulenza tecnica d’ufficio perciò non aveva potuto tener conto, sicchè, sotto tale profilo, la motivazione del giudice d’appello sarebbe inadeguata.
Anche l’ultima censura non può essere accolta.
Della statuizione della Corte territoriale circa la novità della suddetta domanda in appello, la ricorrente, la quale esclude che essa sia stata ritualmente formulata con la citazione introduttiva del giudizio proposta in primo grado, offre conferma in questa sede pretendendo di ricavarne la proposizione già in primo grado da atti inidonei, senza, peraltro, riproporre l’esatto tenore dei capi del formale interpello, contraddicendo così anche al requisito dell’indispensabile autosufficienza.
Di conseguenza deve essere rigettato anche il ricorso principale.
Il mancato accoglimento di tutte le impugnazioni costituisce giusto motivo (art. 92 c.p.c.) per compensare interamente tra tutte le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa interamente tra tutte le parti le spese del giudizio di Cassazione.