Con sentenza n.8094 del 21 Aprile 2015, i Giudici della Suprema Corte hanno definito un procedimento vertente sulla richiesta della moglie di addebito della separazione nei confronti del marito per “comportamento dispotico”.
Dopo aver visto rigettata la propria domanda, dal Tribunale prima e dalla Corte d’Appello dopo, sulla base dell’irrilevanza del comportamento tenuto dal marito in quanto “nell’ambito di quel potere semi-assoluto, noto nelle campagne padane e implicitamente accettato in famiglia, che lascia ogni decisione e arbitrio al padre riconosciuto dominus della gestione familiare”, la donna decideva di ricorrere, avverso tale decisione, in Cassazione.
I Giudici della Suprema Corte, alla fine, hanno ragione a quest’ultima ritenendo fondato il ricorso proposto dalla donna; quest’ultima, infatti, aveva dato rigorosa prova del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza.
I Giudici hanno ritenuto, pertanto, di poter attribuire al comportamento dell’uomo la fine del matrimonio, essendo irrilevante l’atteggiamento di tolleranza del coniuge in quanto la “dipendenza psicologica della moglie non può rendere disponibili valori e diritti di rango costituzionale”.
Per i Giudici, infatti “ la domanda di addebito ha ad oggetto un comportamento interpersonale dispotico del marito che ha lentamente ma irreparabilmente minato l’affectio coniugalis. A fronte di un riscontro effettivo di questo dato esistenziale che ha contraddistinto la vita familiare, la Corte di Appello ha valorizzato elementi psicologici e sociologici che non possono avere rilievo se rapportati ai principi che ispirano il diritto di famiglia da almeno quarant’anni. Ci si riferisce cioè al principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art.3 Cost.) e all’affidamento della costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale (art. 29 Cost.) a un criterio di regolazione dei rapporti coniugali basato sulla ricerca dell’accordo dei coniugi e sul rispetto della pari dignità dei coniugi nella conduzione della vita familiare. In tale quadro di riferimento ai valori costituzionali fondamentali in materia familiare non è possibile giustificare uno scostamento da tali principi basato sul permanere della rilevanza, in alcune aree sociali, di quel ruolo gerarchico che legittimava l’autorità del marito nelle società patriarcali”.
Ed ancora, “l’atteggiamento di tolleranza del coniuge che subisce atti lesivi della propria dignità e del proprio diritto all’uguaglianza nelle relazioni familiari anche se giustificato, più o meno consapevolmente, da una finalità di conservazione del legame coniugale e familiare determinato da una dipendenza psicologica dal coniuge dominante o dalla subordinazione a un interesse presunto o reale dei figli, non può valere a rendere disponibili valori e diritti di rango costituzionale la cui violazione è certamente valutabile ai fini dell’accertamento della responsabilità per la crisi irreversibile del matrimonio, anche se quest’ultima costituisce l’esito di un lungo processo di evoluzione psicologica del coniuge più debole tale da rendere alla fine intollerabili comportamenti subiti per lungo tempo nel corso del matrimonio”.
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