Contestazione di un addebito disciplinare

Ha osservato la Corte di Cassazione (22 febbraio 2008 n. 4674) che “La contestazione di un addebito disciplinare costituisce atto eminentemente formale e, in quanto tale, deve essere chiara, completa ed inequivocabile nel suo contenuto, nè è suscettibile di successive modifiche o integrazioni nelle sue parti essenziali, e, tanto meno, di sottosintesi.”
La sentenza della Suprema Corte offre lo spunto per ritornare sul tema, sempre vivace e foriero di nuove pronunce, del corretto esercizio dei poteri disciplinari da parte del datore di lavoro. La sentenza ripropone due principi cardinali posti a presidio e salvaguardia del diritto di difesa dei lavoratori nel procedimento disciplinare delineato dall’’art. 7 S. L., che consistono nella necessità che la contestazione degli addebiti sia specifica, da un lato, e immutabile nel suo contenuto, dall’’altro lato.

Si afferma, quanto al primo aspetto, che la contestazione degli addebiti deve essere precisa e circostanziata, delineando nei suoi tratti essenziali i fatti oggetto di censura disciplinare e le valutazioni che, in ordine a quei comportamenti, vi ricollega la parte datoriale. La necessità di circoscrivere l’’ambito della contestazione degli addebiti nei suoi elementi materiali e soggettivi ha la funzione di consentire al lavoratore il concreto e fattivo esercizio del diritto di difesa.

Affinché tale diritto sia garantito, la contestazione deve rivestire il carattere della specificità, ovvero contenere le indicazioni necessarie e sufficienti per individuare materialmente il fatto, o i fatti, nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari, con l’’evidente intento di porre il lavoratore nella condizione di conoscere con certezza il comportamento addebitatogli e potersi adeguatamente difendere. In questo senso, recita il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che “La previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2109 c.c.” (Cass. 13.9.2006 n. 19554).

Partendo da questo comune presupposto, si confrontano in giurisprudenza due orientamenti differenziati in merito alla valutazione sul requisito della sufficienza della contestazione disciplinare. Il primo orientamento, più “garantista”, afferma che il requisito della specificità della contestazione disciplinare è rispettato quando gli addebiti mossi al lavoratore sono individuati nei loro termini storici con una precisa e circostanziata esposizione dei dati e degli aspetti essenziali, così da permettere una agevole e completa identificazione dei fatti oggettivi e soggettivi posti a fondamento della lettera di addebito.

In questo contesto, è stata giudicata generica la contestazione disciplinare nella quale venivano imputati al dipendente “scarsa collaborazione”, “insofferenza verso il capoufficio”, “utilizzo di espressioni negative nei confronti della società”, ritenendosi da parte della giurisprudenza che queste affermazioni fossero inidonee a qualificare compiutamente gli addebiti disciplinari ascritti al lavoratore. In un’’altra occasione, la giurisprudenza di merito ha annullato la sanzione disciplinare irrogata collettivamente ad una moltitudine di dipendenti sul presupposto che la contestazione, laddove faceva riferimento “al compimento di atti diretti ad impedire l’’accesso al posto di lavoro da parte dei dipendenti non aderenti allo sciopero” e non specificava, invece, i singoli atti e le specifiche azioni inadempienti posti in essere da ciascun lavoratore, fosse viziata da un’’insanabile genericità.

Un secondo orientamento giurisprudenziale, meno rigoroso, non richiede che la contestazione sia minuziosa, indicando con precisione data, ora e luogo dei fatti, ma si accontenta di una esposizione che, senza pretendere un contenuto analitico, consenta di identificare l’’addebito nella sua portata complessiva. Secondo questo orientamento, che risulta ampiamente prevalente, il requisito della specificità dell’addebito è integrato se la contestazione individua le mancanze e gli inadempimenti nel loro contenuto essenziale, anche in assenza di una esposizione analitica, purchè non risulti incertezza circa l’ambito delle questioni sulle quali il lavoratore è chiamato a difendersi.

In questi termini, è stato osservato che “Nel licenziamento per motivi disciplinari, la regola della specificità della contestazione dell’addebito non richiede necessariamente – ove questo sia riferito a molteplici fatti – l’indicazione anche del giorno e dell’ora in cui gli stessi fatti sono stati commessi, essendo invece sufficiente che il tenore della contestazione sia tale da consentire al lavoratore di individuare nella loro materialità i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli art. 2104 e 2105 c.c., di comprendere l’accusa rivoltagli e di esercitare il diritto di difesa.” (Cass. 7.8.2003 n. 11933).

La sentenza in commento sembra aderire all’’orientamento più rigido, affermando che la validità della sanzione disciplinare – nella fattispecie, si è trattato di un licenziamento disciplinare per giusta causa – è subordinata alla precisa e non generica contestazione dell’’addebito, precisando che solo “se la contestazione contiene nei suoi elementi essenziali la descrizione degli eventi cui fa riferimento e del fatto addebitato, se è esplicita, priva di sottintesi, se è chiara e tale da non prestarsi ad equivoci, la contestazione potrà essere valida, altrimenti no.”.

Altrettanto ricorrente nelle pronunce della giurisprudenza del lavoro è il secondo principio ribadito dalla Suprema Corte, laddove si afferma che i fatti posti a fondamento della sanzione non possono essere modificati o integrati in una fase successiva alla contestazione degli addebiti, in quanto risulterebbe altrimenti pregiudicata la garanzia di difesa del lavoratore. La contestazione, in altri termini, deve essere certa e immutabile nel suo contenuto, nel senso che non è suscettibile di essere integrata, modificata o sostituita da circostanze nuove e argomentazioni ulteriori nella fase finale di irrogazione del provvedimento disciplinare.

Ricollegandosi a questa regola, la Suprema Corte ribadisce, con la sentenza in commento, che è illegittimo il provvedimento disciplinare fondato su fatti e valutazioni difformi e ulteriori rispetto a quelli enunciati nella precedente contestazione di addebito, che costituisce il momento ultimo nel quale i fatti possono e debbono essere cristallizzati nella loro portata disciplinare. In senso conforme, è stato osservato da altra recente giurisprudenza di legittimità che “l’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far valere, a sostegno delle sue determinazioni disciplinari, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione disciplinare anche diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7 l. n. 300 del 1970 assicura al lavoratore incolpato” (Cass. 10.8.2007 n. 17604).

Anche questo secondo principio, per il quale la contestazione è immutabile nel suo contenuto, risponde alla necessità di garantire e salvaguardare un contraddittorio effettivo, che consenta al lavoratore di individuare in modo preciso le censure datoriali e approntare la difesa che ritiene più opportuna, senza vedere successivamente modificati i fatti e le valutazioni a base del provvedimento disciplinare. Ed anche su questa regola la giurisprudenza ha offerto letture differenti, affidandosi ad interpretazioni più o meno rigide e garantiste nella valutazione del requisito di immutabilità della contestazione. Alcune pronunce hanno ritenuto che il principio di necessaria corrispondenza tra gli addebiti contestati e quelli addotti a sostegno della sanzione non esclude, in linea di principio, la parziale modificazione dei fatti contestati, purchè si tratti di circostanze non significative rispetto alla contestazione iniziale, che non configurano elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare.

Pur confermando il valore inderogabile del principio di immutabilità della contestazione dell’’addebito disciplinare, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che, pur essendo precluso al datore di lavoro l’utilizzo di circostanze e fatti diversi da quelli precedentemente contestati e non dedotti, le condotte “estranee” possono essere richiamate in sede di irrogazione del provvedimento per meglio delineare il grado di responsabilità del lavoratore.

In senso conforme, la Suprema Corte ha osservato in passato che “Il principio della immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 st. lav. preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati, e collocantisi a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell’imprenditore.” (Cass. 17.5.2003 n. 7734).

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