A) Il demansionamento consiste nell’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle concordate in sede di assunzione. Tale condotta da parte del datore di lavoro è, generalmente, vietata.
Ricorre il caso di demansionamento anche nell’ipotesi in cui, benché formalmente assegnato a mansioni ricomprese nel livello o nella categoria contrattuale di appartenenza, il lavoratore sia di fatto adibito a compiti inferiori nella sostanza, in quanto non aderenti alla specifica competenza del dipendente.
Al di fuori di alcuni casi specifici elaborati dalla giurisprudenza non solo il demansionamento è vietato, ma è anche indisponibile il diritto del lavoratore ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, a mansioni equivalenti o superiori che abbia successivamente acquisito. Da tale principio consegue l’annullabilità di eventuali rinunce o transazioni che però devono essere impugnate, a pena di decadenza, entro il termine previsto dalla legge.
B) Il demansionamento può anche rappresentare uno dei comportamenti che integrano la fattispecie del cd. Mobbing.
Il mobbing consiste in tutte quelle condotte vessatorie, reiterate e durature, individuali o collettive, rivolte nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori gerarchici (mobbing verticale) e/o colleghi (mobbing orizzontale), oppure anche da parte di sottoposti (in genere incentivati a ciò dal datore di lavoro) nei confronti di un superiore (mobbing ascendente).
Requisito essenziale perché si possa parlare di mobbing è che i suddetti comportamenti siano posti in essere dal datore di lavoro con dolo e che i comportamenti illegittimi del datore siano obiettivamente lesivi per il lavoratore e non solo da questultimo avvertiti come tali.
A tal proposito si rileva che grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto all’obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore; sul lavoratore, invece, grava il solo onere di provare la lesione dell’integrità psico-fisica ed il nesso di causalità tra tale evento dannoso e lo svolgimento della propria attività lavorativa.
In caso di mobbing il lavoratore matura il diritto al risarcimento del danno, danno che si configura sia sotto il profilo del danno biologico sia del danno esistenziale nonché del danno morale. Il diritto a tale risarcimento si prescrive in dieci anni dalla manifestazione del danno stesso.
La giurisprudenza ha riconosciuto concretizzata la fattispecie di mobbing in presenza di alcuni specifici comportamenti, tra i quali
- demansionamento e/o riduzione ingiustificata dell’ambito di autonomia operativa del lavoratore;
- brusca ed improvvisa interruzione della carriera professionale;
- umiliazioni e pressioni psicologiche dalle quali sono derivate al lavoratore sofferenze morali, esaurimento nervoso e, più in generale, danni alla vita di relazione;
- atti reiterati, solo in apparenza giustificati dal potere/dovere di controllo del datore di lavoro i quali, benché formalmente legittimi, sono, in realtà, preordinati alla persecuzione del lavoratore.
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