Il reato di diffamazione a mezzo della stampa si realizza ogniqualvolta vengano pubblicati degli scritti che risultino essere offensivi dell’altrui reputazione.
Non sempre dette pubblicazioni costituiscono un illecito in quanto, in alcuni casi, le stesse risultano essere giustificate dalla necessità di portare a conoscenza il fatto ai lettori.
In sostanza il Legislatore per contemperare tra loro due esigenze contrapposte, quella del soggetto protagonista della notizia a non vedersi leso nel proprio onore e quello costituzionalmente garantito della libertà di manifestazione del pensiero, consente la pubblicazione di scritti anche lesivi purchè resi nei limiti del corretto esercizio del diritto di cronaca.
La giurisprudenza ha elaborato i presupposti che devono sussistere affinché il comportamento del giornalista venga scriminato, ossia ha stabilito che il corretto esercizio del diritto di cronaca si realizza allorché la notizia data rispetti le seguenti condizioni:
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verità (oggettiva o anche solo putativa purchè frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca e controllo del giornalista non solo sulla fonte ma anche sulla verità sostanziale); condizione che non sussiste quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o anche colposamente taciuti altri fatti tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato, ovvero quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive ovvero da sottointesi, accostamenti, insinuazioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore false rappresentazioni della realtà oggettiva;
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la continenza e cioè il rispetto dei requisiti minimi di forma che debbono caratterizzare la cronaca ed anche la critica;
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l’interesse pubblico all’informazione in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione o altri caratteri del servizio giornalistico.
Tali aspetti ed in particolare il requisito della verità risulterà soddisfatto quando il narrato corrisponde all’accaduto avuto riguardo alla situazione di fatto presente al momento della diffusione della notizia.
Pertanto se la notizia riferisce dei fatti risalenti nel tempo, sarà onere del giornalista verificare se nel frattempo non siano intervenute nuove circostanze capaci di aver influito sulla verità del fatto, prima di procedere alla pubblicazione.
E qualora, successivamente a tale momento, fossero intervenute nuove circostanze, le stesse risulteranno del tutto irrilevanti ai fini dell’accertamento della verità della notizia in quanto al giornalista non può essere imposto di prefigurare nella notizia diffusa i possibili sviluppi del fatto narrato.
Ulteriore considerazione merita l’aspetto dell’identificazione del soggetto protagonista dell’articolo giornalistico e quindi della persona vittima della diffamazione.
Infatti, ai fini della diffamazione non occorre che il soggetto risulti essere direttamente identificato con le proprie generalità ma è sufficiente che risulti agevolmente identificabile.
Così in giurisprudenza:
“In tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, non è necessario che il soggetto passivo sia precisamente e specificatamente nominato, ma la sua identificazione deve avvenire, in assenza di un esplicito e nominativo richiamo, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali e simili, i quali devono, unitamente agli altri elementi che la vicenda offre, essere valutati complessivamente, di guisa che possa desumersi, con ragionevole certezza, l’inequivoca identificazione dell’offeso” (Cass. Civ. Sez. III sent. 28-09-2012 n. 16453).
Occorre soffermarsi sul mezzo impiegato per la diffusione della notizia ritenuta diffamatoria e sulla conseguente disciplina applicabile.
Gli articoli e le pubblicazioni apparse sulla rete internet (cd. stampa telematica) vengono equiparate alle notizie diffuse a mezzo della stampa, qualunque ne sia il contesto.
Anche la giurisprudenza sul punto inizia ad essere interessata da pronunce riguardanti il social network Facebook, laddove post lesivi dell’altrui reputazione possono integrare la fattispecie della diffamazione anche nel caso in cui il destinatario delle offese, pur non direttamente generalizzato, risulti essere identificabile con ragionevole certezza, per le circostanze riportate.
Anche il Tribunale di Monza – in una storica sentenza – Sezione IV Civile sentenza 2 marzo 2010 n. 770 – aveva decretato che la pubblicazione e diffusione su Facebook di contenuti che offendono l’onore, la reputazione ed il decoro di un utente integrano responsabilità da fatto illecito, da cui deriva l’obbligo di risarcimento del conseguente danno morale, indipendentemente dalla realizzazione delle fattispecie penali dei reati di ingiuria e di diffamazione ad opera dell’autore degli scritti.
Sono poi seguite ulteriori pronunce e da ultimo la recentissima sentenza della Cassazione – Cass. Pen. Sez. I 24-03-2014 n. 13604 – la quale ha qualificato come diffamatoria la condotta di un soggetto responsabile di aver postato su Facebook frasi denigratorie in danno dei propri colleghi di lavoro che, seppur non direttamente nominati, risultavano agevolmente identificabili.
Può esserci diffamazione anche nel caso di opinione lesiva espressa in un forum, in un newsgroup, in una mailing list o mandando un messaggio mediante posta elettronica ad un pluralità di soggetti (quando i destinatari sono soggetti terzi rispetto a quelli menzionati nel contenuto delle suddette comunicazioni).
In questo ultimo caso, ovvero in tema di diffamazione mediante posta elettronica, è intervenuta la corte di Cassazione, sottolineando che anche se le comunicazioni diffamatorie non sono percepite simultaneamente dai destinatari, il reato di diffamazione è da ritenersi integrato dovendosi ritenere irrilevante l’intervallo di tempo più o meno lungo tra l’una e l’altra comunicazione, poiché sono comunque prodotti i medesimi effetti della diffamazione.
Un’ultima considerazione merita il tipo di tutela che si può far valere nel caso in cui si ritenga esser stati vittima di scritti diffamatori.
Sul punto è configurabile un’alternativa.
È possibile decidere di attivare un procedimento penale mediante la proposizione di una querela da depositarsi però nel limite temporale di 3 mesi decorrente dal giorno in cui la persona offesa abbia avuto conoscenza di esser stata diffamata.
Se la fase processuale si conclude con la condanna del responsabile, la persona offesa che si sia tempestivamente costituita parte civile, potrà vedersi riconoscere il risarcimento del danno.
Diversamente, nei limiti della prescrizione del diritto (ossia entro 5 anni dal giorno in cui il fatto si è verificato) la vittima potrà promuovere giudizio civile in cui, una volta accertata in via incidentale la natura di fatto – reato della condotta posta in essere dall’autore dello scritto, comporterà la condanna di quest’ultimo al risarcimento dei danni morali patiti.
Sul punto della prova del danno, la giurisprudenza si è ormai consolidata nel ritenere che il danno morale subito in conseguenza di una diffamazione sussista a prescindere da una prova specifica e possa essere determinato nel suo ammontare in via equitativa.
Infatti:
“… una volta dimostrata la lesione della reputazione professionale o personale – la quale va valutata in abstracto, ossia con riferimento al contenuto della reputazione quale si è formata nella coscienza sociale di un determinato momento storico – il danno è in re ipsa, in quanto è costituito dalla diminuzione o privazione di un valore, benchè non patrimoniale della persona umana” (Cass. Civ. Sez. II 28 settembre 2012 n. 16543).
Un orientamento, questo, che facilità l’attività processuale del diffamato, agevolando non poco il conseguimento del risarcimento dei danni sofferti.
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