Se un uomo e una donna, uniti in matrimonio, dopo anni di violenze e minacce da parte del marito si separano ma le condotte illecite continuano anche a convivenza cessata che tipo di reato si configura?
C’è un filo sottile che lega e allo stesso tempo differenzia il reato di stalking aggravato da relazione affettiva e quello di maltrattamenti in famiglia e, secondo la Corte di Cassazione, è proprio la cessata convivenza. Ma vediamo insieme che cosa ha chiarito la Suprema Corte con la sentenza n. 20352/2024 e la spiegazione che è stata data per capire la distinzione tra queste due fattispecie di reato.
Stalking o maltrattamenti? Il caso
Il caso esaminato arriva in Cassazione quando il Procuratore decide di impugnare la sentenza della Corte d’Appello, lamentando che la condotta tenuta dall’imputato andasse qualificata non come atti persecutori ma come reato di cui all’art. 572 c.p. (maltrattamenti contro familiari) in quanto, pur essendo cessata la convivenza tra l’imputato e la vittima in seguito alla loro separazione, i due avevano mantenuto rapporti molto stretti essendo genitori di un figlio neonato e non avendo, per altro, neanche formalizzato il divorzio.
Il Procuratore sostiene l’erroneità della scelta della Corte d’Appello di fare una distinzione tra le condotte violente tenute prima e dopo la separazione, qualificando quali maltrattamenti le prime e come stalking le seconde, affermando che “integrano ugualmente il reato di maltrattamenti le condotte che, sorte in ambito domestico, proseguono anche dopo la separazione, di fatto o legale, in quanto il coniuge resta persona della famiglia fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio”. Per questo motivo, afferma il Procuratore, la necessità dell’imputato di adempiere agli obblighi di mantenimento ed assistenza del figlio minore derivanti dall’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale consentiva di assumere la condotta dell’imputato nel reato di maltrattamenti familiari.
La Cassazione sulla distinzione tra stalking e maltrattamenti
La Cassazione reputa fondato il ricorso e lo accoglie ricordando che è ormai un orientamento consolidato quello secondo cui integrano il reato di maltrattamenti in famiglia – e non quello di atti persecutori (stalking) – le condotte vessatorie nei confronti del coniuge iniziate in ambito domestico e proseguite in seguito alla separazione di fatto o legale poiché il coniuge violento resta comunque una persona della famiglia fino alla cessazione degli effetti civili del matrimonio (o allo scioglimento del vincolo matrimoniale) a prescindere dalla convivenza.
Come ricorda la Corte, “quando le azioni vessatorie, fisiche o psicologiche, nei confronti del coniuge siano sorte nell’ambito domestico o proseguano una volta cessato il vincolo familiare si configura il solo reato di maltrattamenti in quanto con il matrimonio/unione civile la persona resta comunque “familiare”. La separazione, infatti, è una condizione che incide solamente sull’assetto concreto delle condizioni di vita e non sullo status acquisito con il matrimonio”, lasciando integri gli obblighi di:
- Reciproco rispetto,
- Assistenza morale e materiale
- Collaborazione nell’interesse della famiglia.
Tutto ciò, spiegano i giudici, in applicazione dell’art. 143, 2° c., c.c., il quale prevede che il coniuge separato resti persona della famiglia. I giudici di legittimità confermano così come tutte le condotte violente consumatesi in fase di separazione tra i coniugi vadano sempre e in ogni caso qualificate come maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), specialmente se vittima e carnefice sono legati da un rapporto genitoriale.
Come ricordato dalla Cassazione, relativamente alla persona convivente il reato di maltrattamenti in famiglia “assorbe quello di atti persecutori quando, nonostante l’avvenuta cessazione della convivenza, la relazione tra i soggetti rimanda comunque connotata da vincoli solidaristici, mentre si configura il reato di atti persecutori (nella forma aggravata prevista dall’art. 612-bis) quando non sussiste alcuna aspettativa di solidarietà nei rapporti tra l’imputato e la vittima, non essendoci vincoli affettivi e di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale”.
La Cassazione sul caso concreto
Nel caso specifico la Corte afferma che i giudici di secondo grado hanno erroneamente omesso di tenere conto del vincolo coniugale ancora sussistente tra l’imputato e la persona offesa, anche a convivenza cessata. Inoltre, essendo il reato di maltrattamenti in famiglia un reato abituale, si “consuma nel momento e nel luogo in cui le condotte poste in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti” pertanto, ogni condotta di maltrattamento successiva si riallaccia alle precedenti dando vita ad un unico illecito, motivo per cui il termine di prescrizione decorre dal giorno di commissione dell’ultima condotta tenuta.
Per tali considerazioni la Cassazione annulla la sentenza relativamente alle condotte contestate con rinvio per nuovo giudizio e, una volta per tutte, afferma che le azioni vessatorie esercitate dall’imputato sono da considerarsi maltrattamenti in famiglia anche se i due non convivono più, essendo ancora formalmente sposati (seppur separati).
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