Una lavoratrice evoca in giudizio l’INPS al fine di ottenere l’accertamento del proprio diritto a percepire l’indennità NASPI.
Ecco i fatti:
La ricorrente, assunta in data 1.02.2010, prestava la propria attività presso l’unità produttiva della datrice di lavoro in Torino, città ove anche la lavoratrice risiedeva.
Sennonché, in data 13.04.2022, la datrice di lavoro comunicava alla lavoratrice il trasferimento presso l’unità produttiva di Trieste, con decorrenza dal 2.05.2022.
In data 29.04.2022, quindi, la lavoratrice rassegnava le proprie dimissioni per giusta causa con decorrenza dal 2.05.2022 indicando il motivo delle dimissioni nel “rifiuto trasferimento in altra sede ad oltre 80 km dalla residenza”.
In data 5.05.2022, la lavoratrice e la datrice di lavoro sottoscrivevano un verbale di conciliazione sindacale.
In data 11.05.2022, la ricorrente presentava domanda di NASPI che veniva, però, respinta dall’INPS con la seguente motivazione “la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni non dà diritto alla concessione del trattamento in oggetto”.
Impugnato il provvedimento, l’INPS confermava, però, il provvedimento reiettivo scrivendo “in caso di trasferimento a più di 50km dalla residenza del lavoratore e/o raggiungibile in più di 80 minuti con i mezzi pubblici, la cessazione deve avvenire con la risoluzione consensuale per poter accedere alla Naspi. In caso di dimissioni per giusta causa è necessario che il lavoratore provi che il trasferimento non sia sorretto da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
La ricorrente chiamava, quindi, in giudizio l’INPS proprio per ottenere l’accertamento del proprio diritto a percepire l’indennità NASPI.
Contrariamente a quanto sostenuto dall’Istituto, però, il Tribunale di Torino (sentenza n.429 del 27.04.2023), afferma che i dipendenti che vengono trasferiti in una sede lavorativa distante non devono provare che il trasferimento fosse privo di ragioni giustificative.
La posizione del tribunale di Torino
Secondo il Tribunale di Torino “l’Inps con riferimento all’ipotesi della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro ammette e riconosce che subire un trasferimento ad altra sede distante oltre 50 km dalla sede abituale di lavoro o raggiungibile in 80 minuti con i mezzi pubblici, impatti in misura rilevante sulle condizioni di vita personali, lavorative e familiari del lavoratore a tal punto da rendere la decisione di interrompere il rapporto di lavoro non volontaria. In questa ipotesi l’adesione del lavoratore alla proposta risolutiva del datore di lavoro è equiparata alle dimissioni per giusta causa come fosse intervenuta in presenza di una giusta causa di recesso.
Per le medesime ragioni, la decisione del lavoratore di dimettersi dopo aver subito un trasferimento di tale natura, a prescindere dalla legittimità o meno della scelta organizzativa datoriale, deve ritenersi una scelta imputabile a terzi, non volontaria ed a cui consegue il diritto di percepire l’indennità NASPI. Del resto, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, non essendoci alcuna differenza concettuale tra la dichiarazione di volontà con cui il lavoratore pone unilateralmente termine al rapporto di lavoro e la dichiarazione di volontà che confluisce, unitamente ad analoga dichiarazione del datore di lavoro, nell’accordo oggetto di risoluzione consensuale. Sarebbe pertanto ingiustificato riservare un diverso trattamento ad ipotesi del tutto analoghe”.
In conclusione:
Posto che le dimissioni rassegnate dalla lavoratrice devono ritenersi involontarie perché determinate da una condotta della datrice di lavoro che ha reso obbligata la scelta della dipendente, la domanda deve essere accolta e l’INPS condannata al pagamento dell’indennità NASPI.
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