Se l’obbiettivo è impedire che l’auto riparta per poter aggredire l’autista, secondo la giurisprudenza tale azione è configurabile come tentata violenza privata.
La Corte d’Appello di Messina riconosce la tentata violenza privata
Con sentenza del 24 settembre 2018, la Corte di appello di Messina confermava la sentenza del Tribunale di Patti che aveva ritenuto l’imputato colpevole del delitto di cui agli artt. 56, 610 c.p. ossia di tentata violenza privata.
Secondo quanto ricostruito dalla Corte territoriale, l’episodio di tentata violenza si sarebbe verificato in un clima d’astio determinato dalla pretesa dell’imputato e dei suoi familiari di vedersi corrisposta la retribuzione per una prestazione d’opera che, secondo l’imputato, la ditta del fratello dell’offeso avrebbe dovuto corrispondere loro.
La ricostruzione dei fatti e la decisione dei giudici
Il giorno della tentata violenza, la vittima era stata avvisato da un cliente dello studio del fratello, presso il quale lavorava, che l’imputato lo aspettava fuori per aggredirlo. L’uomo aveva quindi chiamato i carabinieri che l’avevano scortato in caserma.
Una volta uscito si era avviato verso casa a bordo della sua motocicletta, ma giunto nei pressi aveva dovuto evitare l’imputato, che a piedi aveva cercato di impedirgli di proseguire la marcia minacciandolo anche di morte; si era infine sottratto anche da un suo breve inseguimento.
Per questi motivi, secondo la Corte territoriale, si era configurata la tentata violenza privata nei confronti della vittima.
Il ricorso in Cassazione
Tramite il proprio legale, l’imputato decide quindi di proporre ricorso in Cassazione avanzando tre motivi:
- Con il primo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità del prevenuto la cui prova si era fondata solo su fatti e circostanze che avevano preceduto l’accaduto;
- Con il secondo motivo lamenta la violazione di legge in ordine alla ritenuta configurabilità del tentativo mentre l’azione consumata dal prevenuto al più era rimasta allo stadio degli atti preparatori;
- Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge ed il difetto di motivazione in riferimento al mancato riconoscimento della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p., relativa alla mancata considerazione da parte del giudice di fatto di particolare tenuità del fatto.
La decisione della Cassazione
I primi due motivi non vengono tenuti in considerazione dalla Corte di Cassazione, poiché la stessa non ha la facoltà di riconsiderare gli elementi di fatto posti a fondamento delle decisioni di primo e secondo grado.
La Cassazione però, con sentenza 16/2020, riconosce che la Corte di appello congruamente fondando la propria argomentazione sugli acquisiti elementi di prova, osservando come:
- la ricostruzione offerta dalla persona offesa aveva trovato logico riscontro nella deposizione del teste che aveva riferito di averla avvertita dell’atteggiamento minaccioso dell’imputato;
- la condotta dell’imputato così come era stata riportata era correttamente qualificabile nel contestato delitto di tentata violenza privata posto che il prevenuto aveva compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a interromperne la marcia sul motociclo che la persona offesa stava conducendo non riuscendo nel suo intento perché questi, manovrando il mezzo, si era sottratto al tentativo di blocco (che l’impedire la libertà di movimento di un utente della strada costituisca quella violenza che configura il delitto punito dall’art. 610 codice penale è orientamento costante di questa Corte: fra le ultime pronunce, Sez. 5, n. 33253 del 09/03/2015, Caltabiano, Rv. 264549).
La condotta tenuta dall’imputato, così ricostruita, non era pertanto rimasta alla mera fase degli atti preparatori, concretando invece il descritto tentativo compiuto.
Infine, la Cassazione riconosce che il singolo episodio debba essere ricondotto ad un più ampio contesto di recupero di un credito lavorativo, ma il fatto che la tentata violenza avesse colpito un soggetto estraneo al rapporto di lavoro fa venir meno meno la possibilità di qualificare la condotta contestata come di particolare tenuità.
Per tutti questi motivi, i giudici di legittimità dichiarano inammissibile il ricorso e condannano il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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