I genitori di oggi tra le tante difficoltà che si trovano ad affrontare ne conoscono una piuttosto sottovalutata: i famosi gruppi WhatsApp genitori/ di classe. Nati con l’intento di essere un prezioso strumenti di organizzazione e comunicazione, i gruppi WhatsApp dei genitori spesso diventano una trappola in cui ognuno deve destreggiarsi tra messaggi inutili, gif, emoji e commenti a sproposito. E quando poi i commenti diventano insulti la situazione si complica, implicando anche effetti collaterali sul piano giuridico, come nel caso esaminato oggi.
È diffamazione insultare sui social altri genitori
La vicenda giudiziaria di cui ci occupiamo oggi parte da una festa di bambini durante la quale la mamma del bimbo festeggiato inviava sul gruppo whatsapp dei genitori un messaggio rivolto solo ad un’altra mamma chiedendole di venirsi a riprendere il figlio ritenuto essere “troppo vivace”. Una richiesta che, fatta così pubblicamente, ha particolarmente irritato la seconda madre, la quale ha poi deciso di affidare a Facebook il proprio risentimento sostenendo che l’altra mamma avrebbe offeso il figlio minorenne che era ospite ad una festa di bambini, additandola come persona insensibile e indelicata, ritenuta essere solita “voler impietosire gli altri al fine di raggirare ed estorcere magari qualche soldo con nuove dimore o serate tra banchetti e alcol”. Frasi che, secondo la Corte d’Appello, hanno costituito il reato di diffamazione, non rispecchiando la reale versione dei fatti.
Chat WhatsApp genitori e insulti: il ricorso in Cassazione
Tra i motivi di ricorso in Cassazione la madre ricorrente si difende sostenendo che le frasi denigratorie da lei pubblicate su Facebook e oggetto di contestazione sono state scritte per reazione al fatto che “la persona offesa aveva preteso, mediante un messaggio nella chat-gruppo WhatsApp delle mamme, di cui entrambe facevano parte, che l’imputata si affrettasse a riprendere suo figlio alla festa, senza specificarne le ragioni, così generando in lei panico, mancando risposta alla sua richiesta di sapere se fosse accaduto qualcosa al figlio”. Una sequenza di avvenimenti che, secondo la ricorrente, le aveva generato uno stato d’ira a seguito di un fatto ingiusto altrui che l’aveva portata a sfogarsi su Facebook.
Il motivo viene rigettato dalla Corte di cassazione che, con sentenza n. 789/2024, spiega come già la corte territoriale aveva escluso che alla base degli insulti su Facebook vi fosse una condotta della mamma offesa definibile come “ingiusta”, non potendosi ritenere tale la scelta della donna di chiedere all’imputata di riprendersi il figlio, e non essendo nemmeno provato che la donna lo avesse offeso in qualche altro modo. Il riconoscimento del reato di diffamazione è pertanto corretto.
La Corte, però, decide di annullare e rinviare ai giudici di secondo grado la sentenza così che possano rivalutare il mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, inizialmente non riconosciuto all’imputata, che lo richiede in Cassazione.
Il nostro consiglio? Utilizzare meno e meglio i gruppi whatsapp genitori, evitando così le incomprensioni e, soprattutto, gli insulti con annessa possibile condanna per diffamazione.
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