Il capo rende la vita impossibile ai dipendenti, è stalking o mobbing?

Il capo che rende la vita impossibile ai suoi sottoposti mediante atti persecutori non commette mobbing ma vero e proprio stalking, anche se le minacce e gli insulti riguardano l’aspetto lavorativo: per la Cassazione sono riscontrabili i comportamenti puniti dall’art. 612-bis c.p. nel momento in cui agisce intenzionalmente per arrecare un danno alle parti lese, costrette a modificare le proprie abitudini di vita a causa dei suoi comportamenti vessatori.

Il capo rende la vita impossibile ai dipendenti, è stalking o mobbing?

Il caso: il capo che rende la vita impossibile ai dipendenti condannato per stalking

L’imputato, per lavoro a capo delle persone offese dipendenti della sua stessa società in qualità di ausiliari del traffico, viene ritenuto responsabile di stalking nei confronti dei dipendenti poiché “tramite reiterate minacce, anche di licenziamento  e attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare,” ha instaurato “un duraturo e perdurante stato di ansia e di paura così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita.” Il ricorrente decide allora di fare ricorso in Cassazione chiedendo l’annullamento della sua condanna.

Il ricorso in Cassazione

Nel ricorso si legge che “il conflitto aveva natura puramente lavorativa e derivava dalle molteplici direttive di lavoro disattese e dagli ordini di servizio ignorati dalle persone offese per tutta la durata della presidenza del ricorrente” e sarebbe mancata la contradditorietà nei primi due gradi di giudizio avendo la Corte d’Appello selezionato “solo alcuni degli elementi di fatto emersi” arrivando “ad affermare la sussistenza del delitto di atti persecutori, in realtà inesistente”.

I legali del ricorrente spiegano che il “mobbing inteso come la reiterata attuazione di condotte volte ad esprimere ostilità verso la vittima e preordinate a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, può integrare il delitto di atti persecutori, laddove esso produca nella vittima uno stato di prostrazione psicofisica che si manifesti con uno dei tre eventi previsti dall’art. 612-bis c.p.”. Per questo il ricorrente sostiene che il mobbing  sia concetto non del tutto sovrapponibile al delitto di atti persecutori “che richiede comportamenti fortemente invasivi della sfera privata”.
Nel ricorso viene ricordato che “la Cassazione ha affermato che l’ambiente lavorativo non è una zona franca dello stalking e che la determinazione del contesto in cui si è consumata la condotta è irrilevante allorché i reiterati comportamenti ostili abbiano procurato un danno psicologico nei termini indicati dell’art. 612-bis c.p.”.

La sentenza di Cassazione

I giudici di legittimità con sentenza n.12827/2022 riaffermano il principio, già annunciato dalla Corte di Cassazione, secondo cui “integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti  nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione e isolamento nell’ambiente di lavoro tali da determinare una limitazione alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612 c.p.

Deve comunque sottolinearsi che anche nel caso di stalking occupazionale per la sussistenza del delitto dell’art. 612 c.p. è sufficiente il dolo generico, con la conseguenza che è richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, mentre non occorre che tali condotte siano dirette ad un fine specifico.”

Commette stalking il capo che minaccia di “cementare in un pilastro” i dipendenti

Nel caso specifico il ricorrente ha più volte minacciato le persone offese “di cementarle in un pilastro, le ha invitate a confrontarsi fisicamente con lui, le ha sottoposte a pubblici rimproveri inutilmente mortificanti e ad una serie di provvedimenti disciplinari culminati anche in un licenziamento al fine di creare terrore tra i dipendenti iscritti ad una associazione sindacale”.

Si tratterebbe di comportamenti voluti e reiteratamente attuati nella consapevolezza che ne poteva derivare uno degli eventi previsti dall’art. 612 bis c.p.

A detta del ricorrente i suoi comportamenti sono dovuti alla volontà di rendere più efficiente la società ma, secondo la Corte, è una circostanza senza rilievo considerato che “l’efficienza della società non può essere raggiunta attraverso la persecuzione e l’umiliazione dei dipendenti ed in genere mediante la commissione di delitti ai danni della persona dovendo la tutela del lavoratore prevalere sugli interessi economici”.

Pertanto la considerazione della Corte d’appello di ritenere l’imputato responsabile di atti persecutori è da considerarsi corretta: il ricorso viene rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

studio legale zambonin

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