L’equilibrio tra lavoro e vita personale è un tema sempre più centrale nella società contemporanea. Tuttavia, quando le esigenze aziendali si scontrano con quelle dei dipendenti, possono sorgere conflitti difficili da risolvere.
In una recente sentenza, i Giudici della Corte di Cassazione hanno cercato di rispondere alla domanda: il rifiuto del lavoratore part-time di passare a un rapporto di lavoro full time è giustificato motivo di licenziamento se il lavoro parziale è insufficiente?
Ecco il caso
Il lavoratore, con contratto di part-time orizzontale 20 ore settimanali e qualifica di impiegato amministrativo dopo aver rifiutato la proposta della società di trasformare il rapporto di lavoro da part-time a full time e dopo aver istruito il neo assunto (full time) veniva licenziato per soppressione della sua posizione lavorativa.
Il lavoratore, quindi, impugnava il licenziamento in quanto riteneva che “l’incremento dell’attività non giustificava la soppressione del posto di lavoro con contestuale assunzione di altro lavoratore full time con analoghe mansioni” e che fosse ritorsivo.
Il Tribunale di Milano respingeva la domanda del lavoratore mentre la Corte d’Appello dichiarava la nullità del licenziamento e condannava il datore di lavoro alla reintegrazione e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
I Giudici della Corte d’Appello rilevavano, infatti, che “ai sensi dell’D.Lgs n.81/2015, art. 8, comma 1, il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto parziale o viceversa non costituisce giustificato motivo di licenziamento”. Secondo i Giudici, “era stata pretestuosa la prospettazione di una riorganizzazione aziendale attraverso l’assunzione full time di una nuova figura contabile (dichiaratamente destinata a sostituire il lavoratore licenziato) per fronteggiare un incremento dell’attività lavorativa e che, comunque, non era stata dimostrata l’impossibilità per la società di ripartire tra le due contabili un pacchetto complessivo di clienti o la difficoltà di reperire in tempi brevi una risorsa part-time né era stata provata l’effettiva ineluttibilità del licenziamento del lavoratore come conseguenza necessaria della addotta riorganizzazione”. Inoltre, i Giudici ritenevano il licenziamento oltre che illegittimo anche ritorsivo in quanto “esso non presentava altra spiegazione che il collegamento causale con il rifiuto opposto dal lavoratore alla trasformazione del rapporto in full time”.
Il datore di lavoro proponeva, quindi, ricorso per Cassazione e i Giudici ritenevano fondati i motivi dell’impugnazione.
E infatti, secondo i Giudici, se pur vero che il D.Lgs n.81/2015, art. 8 – comma 1, prevede che “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto parziale o viceversa non costituisce giustificato motivo di licenziamento” tale disposizione non preclude la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part-time (o viceversa) ma comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo posto a carico della parte datoriale. Occorre, infatti che “sussistano o siano dimostrate dal datore di lavoro effettive esigenze economiche e organizzative tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo pieno (o parziale come nel caso in esame) ma solo con l’orario differente richiesto; l’avventa proposta al dipendente o ai dipendenti di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale e il rifiuto dei medesimi; l’esistenza di un nesso causale tra le esigenze di riduzione (o aumento) dell’orario e il licenziamento”.
Il licenziamento, quindi, non deve essere intimato a causa del rifiuto ma a causa dell’impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo parziale e del rifiuto di trasformazione del rapporto in full time.
Secondo i Giudici della Corte di Cassazione, la Corte d’Appello nell’operare la propria analisi non aveva considerato due circostanze decisive da cui risultava contraddetta la ritenuta impossibilità di ripartire tra i due lavoratori il nuovo pacchetto complessivo clienti.
E infatti, l’altra dipendente contabile in servizio, al momento dei fatti, era stata assunta con un contratto di lavoro part-time al 90% per 36 ore settimanali e che a fronte della richiesta di un incremento dell’orario di lavoro il lavoratore licenziato aveva rifiutato l’offerta dichiarandosi disponibile a svolgere al massimo qualche ora di lavoro supplementare.
In tale contesto, quindi, la Corte d’Appello di Milano “non ha rilevato che, anche considerando un incremento settimanale di sole 6 ore aggiuntive queste non potevano essere tutte assegnate all’altra contabile che altrimenti avrebbe svolto un orario di lavoro di 42 ore settimanali a fronte del massimo di 40 e che le restanti 2 ore non avrebbero potuto essere assegnate al lavoratore licenziata in quanto si era dichiarato solo sporadicamente (e quindi, senza alcun vincolo giuridico) disponibile a svolgere qualche ora in più ma solo per i Clienti a lei già assegnati, costituendo ciò, pertanto, un elemento ostativo all’assegnazione anche di sole due ore oltre quelle di cui al part-time in atto”.
E ancora, secondo i Giudici della Corte di Cassazione, i Giudici della Corte d’Appello “non avrebbero dovuto sindacare la scelta imprenditoriale di sostituire il dipendente part-time con uno full time ma avrebbero dovuto verificare (e adeguatamente motivare) se il datore di lavoro avesse dimostrato che quella era l’unica soluzione organizzativa possibile per far fronte al nuovo andamento economico dell’azienda, in una situazione in cui il recesso di un lavoratore part time che si sia rifiutato di modificare il proprio orario di lavoro si manifesta appunto quale extrema ratio di soluzione del problema organizzativo”.
Quanto al licenziamento ritorsivo, non si può escludere, in linea generale, che il licenziamento possa costituire una ritorsione rispetto al rifiuto di trasformazione del nuovo orario di lavoro offerto ma perché si possa affermare la nullità del licenziamento occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinante esclusiva, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso con onere probatorio che ricade sul lavoratore.
Secondo i Giudici della Corte di Cassazione, i Giudici della Corte d’Appello avrebbero conseguentemente dovuto accertare “se effettivamente fosse ravvisabile un intento ritorsivo con efficacia determinante esclusiva anche rispetto ad altri fatti evincibili da tutta la vicenda e non solo considerando l’evento, come causa determinante, del rifiuto opposto dalla dipendente alla trasformazione del rapporto di lavoro in full time, quale collegamento causale con il recesso”.
I Giudici della Corte di Cassazione rinviavano, quindi, alla Corte d’Appello di Milano che – in diversa composizione – dovrà procedere a un nuovo esame considerando i principi di diritto di cui sopra.
Spetterà, quindi, a questi ultimi dare una risposta alla domanda iniziale.
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