La Cassazione ha, di recente, fornito una nuova e più estensiva interpretazione del c.d. obbligo di repechage previsto per le aziende in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO) ampliando la portata di tale obbligo.
Come noto il diritto di repechage è l’obbligo posto a carico del datore di lavoro che procede al licenziamento individuale di un dipendente per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, di verificare che non esistano altre posizioni di lavoro equivalenti in azienda ove lo stesso possa essere utilmente inserito.
Già dopo la modifica dell’art. 2103 c.c., la giurisprudenza, per considerare il licenziamento legittimo, ha cominciato a richiedere l’ulteriore verifica che il dipendente non potesse essere ricollocato in posizioni anche inferiori ovvero potesse essere chiesto al dipendente di ridurre l’orario di lavoro.
Con la sentenza n. 12132/2023 del 8.05.2023, la Corte di Cassazione amplia ulteriormente l’obbligo di repechage in quanto il datore di lavoro ora dovrà valutare la possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento, prendendo in esame anche quelle posizioni che, pur ancora coperte, si renderebbero disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il licenziamento.
Ecco un breve riassunto della vicenda in oggetto
Il lavoratore chiedeva al Tribunale di Busto Arsizio di accertare e dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimatogli in data 3.05.2011 per GMO con conseguente condanna reintegratoria e risarcitoria, previo accertamento dell’imputabilità del rapporto di lavoro alla capogruppo.
Il Tribunale rigettava la domanda e la Corte D’Appello adita successivamente confermava la sentenza di rigetto.
La Corte di Cassazione, invece, cassava la sentenza in quanto “il datore di lavoro, che aveva addotto a fondamento del licenziamento l’avvenuta soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, aveva l’onere di provare che al momento del licenziamento non v’era alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavorate medesimo. Inoltre, ritenne che sarebbe stato necessario dimostrare che per un congruo periodo di tempo successivo al recesso non era stata effettuata alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato”.
Il lavoratore, quindi, riassumeva il Giudizio avanti alla Corte d’Appello di Milano che dichiarava illegittimo il licenziamento e ne ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro condannando il datore di lavoro a risarcire il danno in misura pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento al 31.12.2015, oltre che al pagamento delle spese dell’intero processo in quanto “era emerso che due dipendenti che svolgevano mansioni analoghe avevano rassegnato le dimissioni con un termine di preavviso destinato a scadere in un arco temporale brevissimo dall’intimazione del licenziamento e con necessità di provvedere alla loro sostituzione”.
Il datore di lavoro si rivolgeva, quindi, nuovamente ai Giudici della Cassazione che però ritenevano corretta la decisione della Corte di merito in quanto “il datore di lavoro nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore prima di procedere al suo licenziamento avrebbe dovuto prendere in esame anche quelle posizioni lavorative che, pur ancora coperte, si sarebbero rese disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui veniva intimato il recesso”.
Attenzione, quindi, a rispettare perfettamente l’obbligo di repechage.
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