Sono sempre più frequenti i casi in cui un familiare (soprattutto una donna) subisce maltrattamenti in famiglia ad opera del coniuge o del compagno convivente.
Molte di tali situazioni “rimangono nell’ombra”, perché la vittima, per paura di ritorsioni, non denuncia, rimanendo costretta a subire veri e propri atti di sopraffazione da parte del compagno che rende la propria vita impossibile.
Frequenti sono gli inviti da parte degli organi di stampa a denunciare perché questo è l’unico modo per liberarsi dalla situazione in atto, cercando di cambiare vita.
Maltrattamenti in famiglia: cosa prevede la legge
Qualora venga presentata la denuncia, si attiva una prima fase di indagini preliminari, in cui il Pubblico Ministero titolare del fascicolo, svolge accertamenti finalizzati a verificare la veridicità di quanto dichiarato dalla vittima e, ove possibile, trovare dei riscontri esterni (con dichiarazioni rese da parenti, vicini di casa e di coloro che possono essere informate sui fatti).
Il reato che potrebbe configurarsi è quello previsto e punito dall’art. 572 c.p. che punisce con la reclusione da tre a sette anni “chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente”.
Tale reato si configura altresì nel caso in cui l’autore sia un insegnante o una maestra nei confronti di un alunno oppure un’infermiera in una casa di cura.
Il reato in questione rientra tra quelli del c.d. Codice Rosso ossia di una particolare procedura che assicura una corsia preferenziale rispetto agli altri reati, al fine di assicurare una tempestiva risposta da parte dell’Autorità Giudiziaria, per attribuire alla persona offesa la maggior tutela possibile e cercare di evitare che i maltrattamenti sfocino in fatti ancor più gravi.
Il Pubblico Ministero provvede a richiedere un interrogatorio della querelante in tempi brevissimi, per aggiungere più dettagli possibili e per valutare l’eventuale adozione di misure cautelari, quali l’allontanamento dalla casa familiare e/o il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
Tali misure vengono adottate con urgenza, senza dover attendere l’esito del processo penale che potrà poi concludersi con una sentenza di assoluzione o di condanna in caso di accertata responsabilità da parte dell’accusato.
Anche le vessazioni morali integrano il reato
Risulta interessante segnalare la recente pubblicazione di una sentenza della Cassazione – Cass. Pen. Sez. VI Penale 19/04/23 n. 16678 – che contribuisce a meglio definire in cosa debba consistere il maltrattamento posto in essere dall’autore della condotta per dirsi integrato il reato in esame.
Detta pronuncia è chiamata a pronunciarsi sul ricorso dell’imputato condannato per il reato di maltrattamenti con cui cercava di difendersi opponendo il fatto che il medico curante della vittima, non riferiva di aver riscontrato su di essa segni di lesioni fisiche, in occasione di visite effettuate.
Detta tesi difensiva non si è rivelata vincente in quanto altre prove testimoniali avevano contribuito ad accertare come la vittima, sebbene non avesse riportato segni di violenza fisica, “si trovava in uno stato di prostrazione psicologica e di assoggettamento nei confronti dell’autrice della condotta”, causato da un’abituale condotta realizzata da quest’ultima.
Da qui, il rigetto del ricorso e la conferma della condanna inflitta nei precedenti gradi di giudizio.
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