Purtroppo, come la cronaca ci insegna, capita spesso quando parliamo di violenza di genere e di maltrattamenti in famiglia, di vedere come la parte lesa (solitamente la donna) dopo aver trovato il coraggio di denunciare il partner violento torni poi suoi propri passi ritirando la denuncia. In alcuni casi, come quello esaminato oggi, c’è addirittura chi mente a processo per proteggere il proprio coniuge: secondo la Cassazione, però, tale comportamento non configura il reato di falsa testimonianza: vediamo insieme perché.
Mente per proteggere il compagno violento: la vicenda
Nei primi due gradi di giudizio una donna viene ritenuta colpevole di falsa testimonianza dopo aver mentito nel procedimento per maltrattamenti in famiglia a carico del compagno, accusato di essere stato violento con il figlio minorenne della donna. Il procedimento era partito da una denuncia da parte della nonna materna, la quale aveva segnalato alle forze dell’ordine i comportamenti violenti che l’uomo aveva nei confronti del nipote, senza aver interpellato la mamma (compagna dell’accusato).
Ricorrendo in Cassazione il legale della donna lamenta che non sia stata tenuta in considerazione la causa di non punibilità (di cui all’art. 384 c.p.), applicabile in virtù del rapporto di convivenza instaurato tra la donna e il compagno.
Secondo la sentenza n. 8114/2024 della Corte di Cassazione la decisione dei giudici di secondo grado deve essere annullata poiché, secondo gli Ermellini, le cause di non punibilità vanno applicate a chi ha commesso il reato di falsa testimonianza per “esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”. In sostanza se la donna ha mentito per evitare la prigione al compagno non può essere condannata per le proprie azioni.
Falsa testimonianza: perché il fatto non è punibile
Per la Cassazione siamo dinnanzi a una “scusante soggettiva che investe la colpevolezza”: ma cosa significa? Con tale definizione si intendono tutte quelle situazioni in cui una persona commette un reato – agendo anche con dolo, ossia con l’intenzionalità di compierlo – sapendo di violare la legge ma viene tutelata dall’ordinamento per via del fatto che “la sua condotta è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla sua volontà” tanto che non ci si poteva aspettare un comportamento differente rispetto a quello tenuto.
Nel caso concreto si applica l’art. 384 c.p., e quindi la causa di non punibilità, per via dei legami di natura affettiva che legano l’imputata accusata di falsa testimonianza con il compagno a processo per violenza domestica. Tale interpretazione viene infatti applicata non solo ai coniugi legati da matrimonio ma anche alle coppie di fatto che convivono stabilmente (come nel caso concreto).
In sostanza ci troviamo dinnanzi a un paradosso legislativo: la normativa tutela chi commette il reato di falsa testimonianza, persino in un processo grave come quello di maltrattamenti in famiglia, privilegiando il rapporto affettivo tra la madre e il compagno violento, mettendo in secondo piano la gravità del fatto da quest’ultima commesso per tutelare il partner.
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