Se offendete qualcuno su uno stato di WhatsApp potreste incorrere nel reato di diffamazione: questa la decisione della Cassazione.
L’immissione di scritti lesivi dell’altrui reputazione nel sistema internet integra il reato di diffamazione aggravata previsto e punito dall’art. 595 c.p. comma 3.
Per la consumazione del reato in questione è sufficiente che un soggetto inserisca l’informazione disvoluta dall’ordinamento in un qualsiasi spazio web messo a disposizione da un provider, per il tramite di un server.
Non occorre poi alcuna identità di tempo né di spazio tra l’autore del reato, ossia tra colui che “pubblica” la notizia o l’articolo ed i potenziali fruitori dello stesso che possono trovarsi a grandi distanze tra loro e venire a conoscenza dello scritto anche molto tempo dopo, ossia quando, per mezzo dei propri terminali, si connetteranno al sito sul quale si trova pubblicato lo scritto diffamatorio.
I precedenti con l’uso di Facebook
Risulta ormai pacifico in ragione delle numerose pronunce della Corte di Cassazione che l’immissione sulla propria pagina Facebook oppure su quella della vittima di espressioni che ledano l’onore o la reputazione altrui integri il reato di diffamazione aggravata.
Ed infatti detta condotta si caratterizza dall’alta potenzialità di raggiungere un numero indeterminato di persone, con un incontrollabile diffusione del messaggio che se offensivo integra il reato descritto nell’art. 595 comma 3 c.p. punito con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad Euro 516.
I precedenti con l’uso di WhatsApp
Anche la condotta realizzata con l’uso del noto social di messaggistica è stata già oggetto di pronunce della Suprema Corte.
Sul punto si segnala la sentenza – Corte Cassazione Sez. V Penale 21/02/2019 n. 7904 – che confermava la colpevolezza di un soggetto che aveva postato messaggi offensivi all’interno di una “chat di gruppo”, considerando irrilevante il fatto che a detta “chat” avesse accesso anche la persona destinataria delle offese.
La recentissima sentenza relativa allo stato di WhatsApp
La sentenza della Corte di Cassazione appena pubblicata si occupa di un aspetto particolare dell’uso del noto sistema di messaggistica, ossia la pubblicazione di espressioni offensive (rivolte ad un soggetto identificato o facilmente identificabile) sul proprio stato, anziché all’interno di una “chat”.
La pronuncia – prima del suo genere – in sostanza parifica detta particolare modalità di diffusione con quella realizzata attraverso la pubblicazione su altri social network oppure nella chat di WhatsApp.
Anche tale comportamento consente di far giungere il messaggio ad una pluralità di persone.
Ed infatti tutti i contatti in rubrica, che sul proprio telefono hanno scaricato l’App, possono di fatto vedere quanto postato.
Da qui la conferma delle condanne già inflitte all’imputato nei precedenti gradi di giudizio.
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