È un problema purtroppo frequente che molte coppie si trovano a dover affrontare, quello di non riuscire ad avere figli naturalmente. Fortunatamente la medicina fa continui progressi ed è ormai in grado di aiutare chi non può avere figli semplicemente attraverso un rapporto naturale a coronare il sogno attraverso differenti metodi, tra cui la procreazione medicalmente assistita (PMA) o fecondazione artificiale. Si tratta di una delle tecniche utilizzate per aiutare il concepimento, nei casi in cui questo non avvenga in maniera spontanea.
Ma cosa succede se l’uomo cambia idea dopo aver dato il consenso alla PMA? Secondo una recente sentenza della Corte Costituzionale destinata a fare storia, il successivo venir meno del consenso dell’uomo è sostanzialmente ininfluente nel caso in cui la donna decida di mandare avanti la procedura e avere un figlio con l’ovulo già fecondato.
Procreazione medicalmente assistita: come funziona il consenso
La coppia che intenda accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita deve ufficializzare la propria volontà per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura sanitaria autorizzata ad applicare le tecniche medesime, il quale mette a conoscenza i partner di tutti i rischi, le conseguenze e le responsabilità che derivano da tale consenso. La norma prevede che tra «la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni»; ma tale volontà «può essere revocata da ciascuno dei soggetti […] fino al momento della fecondazione dell’ovulo».
Nel caso esaminato dalla Corte Costituzionale il problema nasce perché, in seguito alla separazione della coppia, la donna chiede di ottenere la condanna della struttura sanitaria a impiantarle l’embrione precedentemente fecondato. Nello specifico, nel 2017 la donna e il coniuge avevano prestato il loro consenso a procedere con la PMA. L’impianto, però, era stato rimandato inizialmente per la scarsa qualità endometriale della donna, poi nel 2018 perché il marito si era allontanato dalla residenza familiare e nel 2019 perché era stata formalizzata la separazione consensuale. L’ex partner aveva chiesto la dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio, intendendo così revocare anche il consenso all’applicazione delle tecniche di PMA, ma la richiesta dell’uomo giungeva ben oltre un periodo di tempo considerevole da quando si era avverata la condizione della fecondazione dell’ovulo.
La ricorrente si appella al Tribunale di Roma sostenendo «che il diritto “di essere madre è un diritto assoluto, fondamentale della persona, garantito dalla Costituzione agli artt. 2, 31, co. 2, e 32”». Dal canto suo l’ex marito sostiene che, «nell’ipotesi in cui venga meno il progetto di coppia prima del trasferimento dell’impianto dovrebbe ritenersi possibile la revoca del consenso».
Il giudice, compresa la delicata e spinosa questione, decide di interpellare la Corte Costituzionale, riconoscendo che l’accoglimento della richiesta della donna “violerebbe il principio di autodeterminazione tutelando la volontà dell’uomo soltanto nella fase iniziale della procedura di PMA”. A sostenere tale tesi, naturalmente, c’è l’ex marito, il quale ritiene che la mancata previsione della revocabilità del consenso dell’uomo dopo la fecondazione determini “un’irragionevole diversificazione tra la procedura di PMA e gli altri trattamenti sanitari, nei quali invece la volontà di sottoporvisi può essere sempre revocata”.
Le ragioni della donna a proseguire con la PMA
La donna nel suo ricorso cita il decreto del Ministro della salute 1° luglio 2015 (Linee guida contenenti le indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita), il quale riconoscerebbe il diritto all’impianto indipendentemente dal consenso dell’uomo, stabilendo che «la donna ha sempre il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati». La donna sostiene che la richiesta dell’ex partner “si tradurrebbe nel riconoscimento a favore dell’uomo di «una sorta di diritto potestativo» sulla donna, impedendole di divenire madre e di dare alla luce il figlio «da lei stessa concepito»”.
Inoltre, come sostenuto dal difensore dell’ex moglie, l’uomo aveva liberamente e consapevolmente espresso il proprio consenso alla PMA , dopo essere stato informato «di ogni conseguenza e dell’impossibilità di revocarlo».
Preso atto di quanto sostenuto dalle parti, la palla passa in mano alla Consulta, la quale ha un’importante decisione da prendere.
Violazione del principio di eguaglianza
Esaminando la delicata e complessa questione, la Corte decide di partire dalla lamentata violazione del principio di eguaglianza, questione che non viene ritenuta fondata. Per i giudici, seppur valga per entrambe le parti l’impossibilità di revocare il consenso dopo la fecondazione, è indubbio che non si possa effettuare un impianto coattivo nei confronti della donna, essendo quest’ultima l’unica ad essere esposta all’azione medica che, dunque, può legittimamente rifiutare di subire. Per i giudici è semplice: non viene violato il principio di eguaglianza perché la situazione dell’uomo e della donna non sono uguali già in partenza.
Violazione del principio di autodeterminazione dell’uomo
Il secondo principio che il padre ritiene violato è quello dell’autodeterminazione dell’uomo, ma anche in questo caso per la Corte la violazione non può essere riconosciuta perché le informazioni che il medico fornisce all’inizio della procedura, prima che le parti diano il proprio consenso, prevedono anche la spiegazione di tutte le conseguenze che derivano dal consenso espresso e, tra queste, che il consenso resta valido anche qualora venissero meno le iniziali condizioni di accesso alla PMA (come un sopraggiunto divorzio o separazione).
Secondo i giudici, inoltre, “Nella specifica disciplina della PMA la responsabilità assunta con il consenso prestato (sentenza n. 230 del 2020) riveste quindi un valore centrale e determinante nella dinamica giuridica finalizzata a condurre alla genitorialità, risultando funzionale «a sottrarre il destino giuridico del figlio ai mutamenti di una volontà che, in alcuni casi particolari e a certe condizioni, tassativamente previste, rileva ai fini del suo concepimento» (sentenza n. 127 del 2020)”.
In definitiva – procedono i giudici – “se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina dell’irrevocabilità del consenso si configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella PMA, comunque garantita dalla legge, fa sì che l’uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre”.
La PMA e la tutela della donna e dell’embrione
D’altro canto, per la donna sottoporsi alla PMA non è solo un esplicito consenso rilasciato prima di iniziare la procedura, ma un doloroso processo che muta e trasforma il suo corpo sottoponendola anche a grossi rischi. E a questo investimento la donna decide di prestarsi in virtù del consenso rilasciato dal marito, motivo per cui l’irrevocabilità del consenso è necessaria per salvaguardare l’integrità psicofisica della donna coinvolta.
Di rilievo è anche la tutela della dignità dell’embrione: in passato la Corte Costituzionale ha già precisato che “l’embrione ha in sé il principio della vita” (sent. N.84/2016) da tutelare, essendo la fecondazione tale da dare avvio al “processo di sviluppo di un essere umano”. La Consulta spiega che “Ove si considerino la tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell’embrione crioconservato, che potrebbe attecchire nell’utero materno, risulta non irragionevole la compressione, in ordine alla prospettiva di una paternità, della libertà di autodeterminazione dell’uomo, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.”.
Procreazione medicalmente assistita: la decisione della Consulta
Dopo aver analizzato punto per punto i dubbi e le teorie avanzate dalle parti, la Corte Costituzionale conclude sostenendo in modo chiaro che “la previsione dell’irrevocabilità del consenso stabilita dalla norma censurata – benché introdotta in un contesto in cui la PMA avrebbe dovuto svolgersi in uno stesso ciclo, cioè con l’unico e contemporaneo impianto di un numero limitato di embrioni e, in linea generale, senza ricorrere alla crioconservazione – mantiene un non insufficiente grado di coerenza anche nel nuovo contesto ordinamentale risultante dagli interventi di questa Corte”.
La Corte Costituzionale, dichiarando l’inammissibilità le questioni di legittimità costituzionali sollevate dal tribunale e mettendo così la parola fine ad un caso destinato a fare storia, riconosce comunque il palese interesse dell’uomo a non diventare padre, spiegando semplicemente che viene in secondo piano rispetto a quanto stabilito dall’allora coppia al momento della concessione del consenso a procedere con la procreazione medicalmente assistita.
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