Ancora una volta il nostro ordinamento ha ribadito un concetto semplice in maniera chiara: i minori vanno tutelati sempre. Sia che siano nelle condizioni di comprendere ciò che sta loro succedendo (o ciò che attorno a loro avviene), sia che siano troppo piccoli per capire. La Corte di Cassazione, infatti, ha ribadito che ai maltrattamenti in famiglia commessi in presenza di un minore, anche se infante, va applicata l’aggravante del fatto compiuto in presenza di un minore, che allo stesso modo ricorre anche qualora ad essere destinataria delle violenze fosse una donna incinta.
Reato in presenza di un minore: il caso concreto
Con la recente sentenza n. 11097/2024 la Corte di Cassazione, esaminando il caso di un imputato già condannato a due anni e sei mesi per il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) con l’aggravante di “avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza” (art. 61 c.11 quinquies c.p.) nei confronti della sua compagna e del figlio, ha respinto la richiesta dell’uomo di non riconoscere l’aggravante non essendoci stata stabile coabitazione con la compagna durante le violenze ed essendo il bambino troppo piccolo per capire cosa stava succedendo. Secondo le ricostruzioni effettuate dai giudici in sede di processo l’imputato nel corso degli anni aveva maltrattato la compagna durante la convivenza con comportamenti violenti e aggressivi, procurandole lesioni sia durante la gravidanza che, successivamente, in presenza del figlio minore. Una volta cessata temporaneamente la convivenza l’uomo aveva protratto le violenze con atti persecutori ai danni della donna e dei suoi genitori, anche in questo caso in presenza del minore, cagionando a tutte le vittime un “perdurante stato d’ansia e di paura, generando il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto e costringendoli ad alterare le proprie abitudini di vita”.
L’imputato rivolgendosi alla Cassazione chiede che non venga riconosciuta l’abitualità della condotta trattandosi – a suo dire – di condotte violente isolate. Nel ricorso viene evidenziato anche come non sarebbe possibile stabilire se il minore potesse avere consapevolezza delle violenze subite da lui e dalla madre all’epoca dei fatti. Per questo motivo secondo l’imputato verrebbe meno l’aggravante riconosciuta in giudizio. Per i giudici di legittimità, però, il ricorso va respinto essendo infondato.
Reato in presenza di un minore: cosa dice la Cassazione
I giudici della Cassazione innanzitutto chiariscono che si è in presenza di comportamenti reiterati, anche se non sistematici, volti a ledere la dignità e l’identità delle persone offese. Per gli Ermellini nei primi due gradi di processo è stato correttamente ricostruito il contesto di sopraffazione e violenza creato dalle condotte dell’imputato ai danni della convivente (anche durante il suo periodo di gravidanza), pertanto è da ritenersi infondata la richiesta di non riconoscere l’abitualità delle condotte di maltrattamento. Viene respinta anche l’affermazione secondo cui la convivenza tra l’imputato a la sua vittima non sarebbe stata stabile per via di alcuni periodi che l’uomo avrebbe fatto lontano da casa trasferendosi presso l’abitazione della madre, in quando “non veniva comunque meno quella comunione di vita tra l’uomo e la persona offesa, che si recava quotidianamente presso l’abitazione dell’imputato”.
In merito all’aggravante della presenza di un minore durante la commissione dei reati, la Cassazione ricorda come la vigente normativa in merito (art. 61, n.11-quinquies c.p., così come modificata dalla l. n.119/2013) contempla chiaramente una circostanza aggravante comune consistente nella “commissione del delitto di maltrattamenti in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”. E per riconoscere tale aggravante è sufficiente che “anche una sola delle condotte vessatorie sia stata posta in essere quando ricorra una delle due situazioni.
- O in presenza del minore;
- O nei confronti di una persona in stato di gravidanza”.
Nel caso concreto tramite diverse testimonianze durante il processo era già stato correttamente ricostruito come alcune condotte di maltrattamento siano state effettuate sia in presenza del figlio della coppia che quando la donna era ancora incinta. E non solo: i giudici di legittimità ricordano come “ai fini della configurabilità dell’aggravante la giurisprudenza ritiene non necessario che il minore, esposto alla percezione della condotta illecita, abbia la maturità psico-fisica necessaria per comprendere la portata offensiva o lesiva degli atti commessi in sua presenza” essendo sufficiente per l’applicazione dell’aggravante, appunto, solamente la sua presenza e non richiedendo la norma che questi abbia raggiunto un’età o un grado di sviluppo tale da poter comprendere la natura violenta della condotta.
Un ragionamento che come sempre è coerente con la volontà del legislatore di tutelare i soggetti più vulnerabili: i minori.
Infine, in merito al fatto che la donna aveva ritirato la querela nei confronti del compagno, i giudici ricordano che vista la gravità dei fatti contestati (comprese reiterate minacce di morte) è pacificamente possibile procedere d’ufficio e pertanto tale remissione non impedisce la prosecuzione del procedimento penale.
Tutto ciò premesso, il ricorso viene rigettato e l’imputato condannato a pagare le spese processuali: i reati commessi in presenza di un minore, anche se appena nato, comportano sempre l’aggravante prevista dall’art. art. 61, n.11-quinquies c.p..
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